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Addio Maestro. Matera piange Michelangelo Pentasuglia, simbolo della “Festa della Bruna”

Michelangelo Pentasuglia, maestro cartapestaio, si è spento ieri all’età di 87 anni. Una perdita pesante per la comunità materana, che ha visto scomparire un simbolo della storia di Matera e del suo aspetto più bello: la creatività, la manualità, l’arte. Uniti alla tempra tipica di “un uomo di altri tempi”, come lo ha definito il nipote Raffaele Pentasuglia, anche lui maestro cartapestaio. Di altri tempi, ma sempre con un’apertura al futuro sorprendente, ai viaggi, ai giovani. Il suo nome è indissolubilmente legato alla festa della Madonna della Bruna, con i suoi carri: 13 quelli realizzati da lui, 50 in totale nella sua carriera; l’ultimo nel 2016 quando, in una passeggiata “particolare”, ci fu il passaggio di testimone con Raffaele. I materani portano da sempre, dopo lo strazzo, i pezzi del carro a casa come reliquie. Da oggi lo saranno un po’ di più.

Che uomo è stato Michelangelo Pentasuglia?
«Era una figura particolare, con caratteristiche da primo ‘900: rigoroso negli orari, grande attenzione ai materiali, infaticabile sul lavoro. Il suo giudizio non superava mai il livello del “pot’ scì” (può andare). Quando facevi bene una cosa, era il massimo che ti diceva. Per lui significava approvazione totale. Conoscendo gli altri rami della famiglia, suo padre e mio nonno, l’imprinting è quello di non dare mai soddisfazione. Michelangelo era figlio del suo tempo».
Com’è iniziato il vostro rapporto?
«Non in maniera idilliaca. Io avevo appena finito di studiare a Milano e lui stava facendo il carro, era il 2006, più o meno. Andai in fabbrica da lui perché avevo deciso di cambiare mestiere, gli chiesi se voleva una mano. Ma Michelangelo i carri li finiva con largo anticipo e io ci ero andato in primavera. Mi disse che era finito. Pensai volesse escludermi e non ci pensai più».
Perché lo ha pensato?
«Si racconta che ai primi del ‘900, quando Raffaele Pentasuglia seppe che il nipote stava per mettersi a fare i carri, andò a buttare gli stampi nella Murgia. Non so se è vero, con Michelangelo non sapevi mai con certezza fino a che punto scherzasse, ma è sintomatico di un atteggiamento che c’era prima. Questo è sempre stato un mestiere protetto e non mostrato. Lui però percepiva che i tempi erano cambiati. Anche mio nonno faceva le interviste, ma la fabbrica era sempre chiusa. Lui invece apriva, gli piaceva parlare con i giornalisti e percepiva che anche questo fa parte del mestiere».
Com’è andata dopo quell’incontro del 2006?
«Qualche anno dopo ci fu un altro scontro: due bozzetti per il carro, uno contro l’altro. Vinse lui, e meno male. Noi presentammo un bozzetto con un gruppo, ma faceva abbastanza schifo. Non saremmo neanche riusciti a portarlo a termine. Le cose cambiarono radicalmente nel 2016 quando decisi di provare seriamente a fare il carro, e andai da lui insieme a Massimo Casiello e altre persone. “Vogliamo imparare a fare il carro, non vogliamo una lira e ci fai vedere come si fa”, gli dicemmo. Accettò di buon grado, contento di questo slancio. Fu molto bello».
L’ultimo carro è stato quello del 2016.
«Sì. Michelangelo faceva cose inconcepibili per quegli anni. Quando si andava a presentare il carro, i maestri cartapestai ci andavano da soli. Lui invece nel 2016 portò tutto il nostro gruppo. Il percorso di costruzione del carro fu interessante, ci faceva vedere continuamente, ci seguiva. È stata un’esperienza umana molto bella. Per uno di quella generazione, con la formazione che aveva, era tutt’altro che scontato».
Che formazione aveva?
«Aveva la capacità di cogliere con i pochi mezzi che aveva. Volle partire, andò giovanissimo a Torino alla Scuola di indoratura. Era sempre curioso, voleva capire se le nuove tecniche facevano risparmiare tempo e soldi, aveva una dimensione di apertura mentale veramente insolita».
Qual è il suo ricordo più bello di Michelangelo?
«Il 2 luglio 2016. Io mi presentai in pantaloncini e lui mi fece una sfuriata davanti a tutti. Per lui la Festa della Bruna, come per tutti in questa città, era una cosa seria anche dal punto di vista del dress code. Voleva rigore, ma c’erano 45 gradi all’ombra. A un certo punto, quando i rituali in cattedrale erano finiti, mi disse “Camin c’ me” (cammina con me). Avrebbe voluto che facessimo altri carri insieme, ma sospettava che potesse essere l’ultimo. Non era un ragazzino, ma si arrampicava su queste scale traballanti del ‘700 facendo paura a tutti. Ho percepito quella passeggiata come un’investitura. Per quanto, era un carattere che non mollava mai. E le sue ultime ore hanno mantenuto la linea».

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