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Quando una stretta di mano diventa luogo di dialogo in un sistema problematico

Ci sono luoghi in cui la stretta di mano non è mero gesto di cortesia. Il carcere è uno di questi. Per molti, per coloro che conoscono gli istituti penitenziari solo attraverso documentari e servizi giornalistici, le mani fuoriescono dalle sbarre delle celle, simbolo di una libertà ormai smarrita; rappresentazione del disagio e di un’attesa che non ha dimensione temporale. Ma, per chi ha calpestato il pavimento di quei corridoi tutti uguali, attraversato sezioni e passaggi, ascoltato il rumore di chiavi e cancelli, le mani assumono un altro significato. Il saluto e la stretta di mano, sempre e comunque, sono tra le regole non scritte del carcere.

Non è stanca abitudine l’ostentazione di un’educazione in parte ritrovata, a tratti forzata. Non era, non è ubbidienza alla realtà ristretta. In quel contatto, la persona detenuta ritrova la sua identità, oltre il reato.
A quel gesto veloce, distratto, affida la sua dimensione di essere umano in un luogo in cui le emozioni sono soffocate. Stringere la mano a chi arriva dall’esterno significa depositare la propria storia, seppur per qualche istante, scambiare energie.

Così, dentro un sistema freddo e problematico, lo spazio rispettoso dell’umano ritrova la sua essenza, anche grazie a persone che credono nel proprio lavoro o nella propria opera di volontariato. I primi – agenti penitenziari, educatori, sanitari, amministrativi, insegnanti – spesso rinunciano al limite sterile del ruolo, per colmare di umanità un luogo in cui, nonostante il sovraffollamento, si sommano solitudini silenziose.

I secondi – i volontari – con grande forza di volontà e un pizzico di ostinazione, contribuiscono ad accompagnare le persone ristrette nel loro percorso rieducativo, rappresentando un aiuto per un reinserimento concreto. Sono un ponte, i volontari; sono il laccio necessario per ricucire lo strappo avvenuto con la società e hanno un compito molto delicato, nella misura in cui rappresentano il contatto con un mondo lontano, a volte ostile.

La gratuità del loro intervento diventa punto di forza: entrano in un rapporto dialogico con i detenuti e riescono, talvolta, persino a disinnescare tensioni ed eventi critici, attraverso la loro presenza affettiva.
Ma, non solo. La storia racconta che riescono a connettere le diverse realtà presenti nel carcere e a facilitare la realizzazione di eventi che sembravano quasi impossibili, all’interno di un Istituto di Pena. I due obiettivi principali di queste azioni sono: sensibilizzare la comunità sul diritto a scontare una pena che sia dignitosa ed elaborare progetti. Iniziative solidali che rinsaldano quel ponte, anche grazie a un lavoro di rete con le risorse socio-assistenziali presenti sul territorio.

Nell’esercizio dei precitati ruoli si mettono a disposizione le proprie competenze, supportate da un sentimento di solidarietà che spinge ad interessarsi ed occuparsi delle persone detenute, dei loro familiari e dei loro problemi.

Non con l’arroganza di chi vuole sostituirsi alle Istituzioni, ma semplicemente cercando di essere un elemento coinvolgente di mutamento, di conforto individuale e di sviluppo comune. Manifestare attenzione, dedicare del tempo alle persone detenute non significa affatto sottrarre interesse alle vittime, anzi. Il volontario esercita una funzione di testimone del tempo della memoria, affinché le sofferenze patite possano diventare parte attiva della coscienza individuale e civile del reo.

Il volontario, proprio perché consapevole del dolore delle vittime, contribuisce col proprio servizio alla prevenzione del comportamento deviante e, quindi, alla riduzione della recidiva. Attraverso la sinergia e la collaborazione, in soverchio ossequio ai ruoli ricoperti, la pena può tramutarsi da tempo trascorso in tempo vissuto, divenendo effettivamente strumento di riflessione e reinserimento.

Una pena trascorsa non determina cambiamento e maturazione, ma, al contrario, tende ad un immobilismo che logora e deteriora, senza lasciare speranza. Tendere alla riabilitazione del reo significa tendere una mano che è pronta ad accompagnare e non a dileggiare e a mistificare.

La famosa stretta di mano che, come afferma Papa Francesco, deve servire a rialzare colui che ha scoperto il dolore della caduta, precludendo che lo sguardo dall’alto in basso sia emblema di discriminazione ed emarginazione. Una mano che conduce ad una luce e che riconnette ad una libertà vera e non alla prigionia di una libertà opaca.

Difatti, solo con una pena efficace e con ravvedimento operoso si arriva ad uno stato di incondizionata libertà, senza il rischio di una ricaduta nella vischiosità dell’azione. Il confronto, la condivisione, l’esperienza del bene e la sana stretta di mano abbattono il male, l’inerte ozio e i pensieri deviati e devianti. La legalità passa inevitabilmente anche attraverso questo crocevia, ovvero attraverso opere di sensibilizzazione che hanno efficacia preventiva e risocializzante. Credere nei valori portanti dell’assetto civile significa, non solo, praticarli ma disseminarli con amore e opera di persuasione.

Sfiorare le anime e fare avvertire quella ebbrezza di pace rientra in un paradigma universale che conduce al piacere di una vita comunitaria, senza barriere fisiche e metafisiche.

L’uomo è chiamato ad avvertire colori, suoni, suggestioni presenti, ma non sempre evidenti. Emily Dickinson, nota Poetessa Statunitense, nel parafrasare l’attesa del mese di Marzo, afferma: «Le cose che ignoriamo sono in cammino», proprio quel cammino che, con i suoi odori e sapori fantasmagorici, deve condurre alla libertà come baluardo inattaccabile, lontano dal crepuscolo del male.
Una scelta tra la vita e la morte.

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