Bar dell’UniBa, sede di Taranto. Ermal Meta è intento a sorseggiare un caffè, quando una giovane coppia lo avvicina emozionata, per confessargli di essersi innamorata ascoltando una delle sue canzoni. Lui sorride dietro le lenti scure degli occhiali da sole, e prova a indovinare quale dei suoi brani abbia compiuto il “misfatto”. Questo il prologo dell’intervista all’artista, pochi minuti prima della presentazione del suo libro “Le camelie invernali” al Caffè Letterario, nell’ambito del Medimex 2025.
Cosa rappresenta per la Puglia il Medimex?
«È la prima volta che partecipo e la trovo un’esperienza straordinaria: un vero laboratorio culturale in cui letteratura e musica si fondono in un calderone di fermento creativo. Per me, l’arte è strumento di unità e collaborazione, e qui si percepisce un’energia condivisa che raramente si trova altrove».
Pensa che eventi come questo possano aiutare ad avvicinare i giovani al senso pratico della musica, al di là delle ambizioni di successo?
«La risposta non è affatto scontata. Un tempo la musica dettava il ritmo di intere rivoluzioni culturali: negli anni Sessanta il rock’n’roll e la liberazione sessuale, negli anni Settanta l’onirismo psichedelico, negli Ottanta l’elettronica, nei Novanta il grunge. Con l’inizio del nuovo millennio, invece, la musica ha cominciato a parlare soprattutto di sé stessa, diventando spesso patinata e autoreferenziale. Oggi sembra che prendiamo più dalla musica di quanto le restituiamo: molto spesso creiamo “prodotti limone”, spremuti e poi scartati. Festival come il Medimex creano il clima giusto per nutrire nuova linfa, ma poi si ritorna alla realtà quotidiana con orizzonti sempre più ridotti».
In passato la musica è stata megafono di battaglie sociali e politiche. Oggi, con la drammatica situazione che vivono i diversi Paesi in guerra, ritiene che ci siano ancora artisti disposti a schierarsi apertamente?
«Purtroppo non più con la stessa forza. C’è una sorta di atrofia: il pubblico evita “pesantezze” e gli artisti che osano esprimere posizioni rischiano di sparire dalle playlist radiofoniche. Non per essere autocelebrativo, ma l’ultimo esempio significativo è stata la mia “Non Mi Avete Fatto Niente”, sul terrorismo. Ma viviamo in una società ossessionata dalla spettacolarizzazione del dolore, dove scorriamo i social in un loop che passa da foto di gattini e pose in costume a scene di massacri e tragedie. Questo annulla ogni profondità. Guarda il pubblico ai concerti: tutti a filmare, telefoni alla mano, persi dietro uno schermo anziché godersi il palco davanti a loro: così si perde la memoria, che fino a poco tempo fa abitava dentro di noi, non in un server remoto».
Lei è in tour e contemporaneamente sta promuovendo il libro. Sembra un periodo intensissimo.
«È un momento effettivamente molto impegnativo. Il tour copre tutta l’estate fino all’8 agosto, poi riprenderà a settembre. Quanto al secondo romanzo, “Le camelie invernali”, superare le aspettative dopo il primo non è mai semplice, ma l’accoglienza è stata meravigliosa. Girare per le presentazioni e sentire l’interesse verso la mia terra d’origine, l’Albania, è estremamente gratificante».
Nel libro ritorna proprio alle sue radici. Perché questo viaggio nel passato?
«L’Albania è un luogo di cui si parla molto, ma che si conosce poco davvero. Spesso si fa riferimento solo alla nave del ’91, mentre c’è un’altra faccia di quella storia che non è ancora stata raccontata appieno. Sentivo il dovere di confrontarmi con le mie radici per fare pace con il passato e offrire un ritratto autentico, un processo ancora aperto».
Per chiudere: cosa ha provato nell’essere fermato da quella coppia al bar, quando le hanno detto di essersi innamorati con una sua canzone?
«È stato davvero magico. La canzone è come un colpo di lama, un frammento verticale. Quando scrivo un brano, gliene attribuisco un significato, ma vedere che nelle vite degli altri assume un senso diverso è il vero segreto della musica. La canzone passa di bocca in bocca, evolve, e quello è l’incantesimo più bello».