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Lavoro e diritti al Sud, l’avvocato Augusto: «Potere d’acquisto basso e reintegro ormai quasi impossibile» – L’INTERVISTA

È intenzione del giornale aprire un dibattito sul tema «lavoro» al Mezzogiorno e in Puglia, anche attraverso i contributi più diversi, tenendo in conto le posizioni sia dei lavoratori che delle imprese. In un recente convegno tenuto a Bari dall’«Associazione italiana di Diritto del lavoro e della Sicurezza sociale», che promuove lo studio del diritto…
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È intenzione del giornale aprire un dibattito sul tema «lavoro» al Mezzogiorno e in Puglia, anche attraverso i contributi più diversi, tenendo in conto le posizioni sia dei lavoratori che delle imprese.

In un recente convegno tenuto a Bari dall’«Associazione italiana di Diritto del lavoro e della Sicurezza sociale», che promuove lo studio del diritto del lavoro e della sicurezza sociale e favorisce lo scambio di idee e la collaborazione tra giuristi italiani nel campo, Enzo Augusto, avvocato giuslavorista barese con alle spalle cinquant’anni di foro, è intervenuto con alcune considerazioni.

Il primo tema che ha sottolineato è stato quello della retribuzione?

«Questo è un problema serio, perché rispetto all’Europa abbiamo un ritardo enorme, siamo agli ultimi posti in Europa sul potere d’acquisto dei salari, che naturalmente si ribalta immediatamente nei consumi. In Italia abbiamo un problema di calo dei consumi, ma è chiaro che i consumi calano se i salari non sono adeguati. È un tema che quindi travalica la questione del lavoro. Il Governo si vanta di avere un crescente numero di occupati, ma è un dato assolutamente drogato, perché aumentano i lavori poveri, i lavori sottopagati. Buona parte degli occupati portano a casa, in maniera precaria, 700-800 euro al mese, una miseria con cui non si campa. Anche se lavorano marito e moglie, portano 1.500 euro e sono sotto la soglia di povertà. Quindi la questione salariale è una questione enorme».

Perché lei ha sollevato anche il tema del declino del processo del lavoro?

«Quanto ho appena detto, si riflette anche sul declino del processo del lavoro, perché oggi è difficile fare vertenze con lavoratori che sono a contratto precario, a termine, a chiamata. Chi non ha una sicurezza del posto fisso con un contratto a tempo indeterminato ha difficoltà a rivendicare le proprie ragioni. Se uno ha un contratto di tre mesi che deve essere rinnovato, è chiaro che in quei tre mesi non può permettersi nessuna rivendicazione. Inoltre, se un lavoratore si fa la reputazione di uno che avanza rivendicazioni, esce fuori da qualsiasi giro lavorativo. Il lavoratore precario che non ha il contratto a tempo indeterminato, è un lavoratore costantemente ricattato, che non è in grado di far valere i propri diritti».

E nel caso di un contratto a tempo indeterminato?

«Si è indebolita anche la figura del lavoratore a tempo indeterminato, perché anche quando si ha la forza di agire in via legale, i processi sono lunghi, hanno tempi inaccettabili. Persino nelle impugnative di licenziamento, che dovrebbero avere una corsia privilegiata, passano mesi, se non anni. Nelle impugnative di licenziamento o il provvedimento di reintegra avviene in poche settimane o in pochissimi mesi, oppure è inutile, perché nessun lavoratore può permettersi il lusso di aspettare la sentenza rimanendo disoccupato. Chi è licenziato, impugna il licenziamento, poi si va a trovare un altro lavoro. Quando dopo due, tre anni, viene fuori la sentenza di reintegrazione il lavoratore non ha più nessun interesse a essere reintegrato perché sta lavorando da un’altra parte. Al limite, monetizza attraverso il diritto di opzione, perché il lavoratore che è stato reintegrato può decidere se tornare al suo posto di lavoro, oppure optare per un risarcimento di quindici mensilità. È solo poesia quella che facciamo sulla reintegrazione dell’articolo 18».

Si tratta di cambiamenti recenti, oppure è un bilancio che fa alla luce della sua lunga esperienza di giuslavorista?

«In cinquant’anni, ho visto poca gente essere reintegrata effettivamente. Una volta quest’ordine del giudice era coercibile. Ricordo di essere andato alla «Peroni» a riportare dentro un dipendente, rappresentante sindacale che era stato licenziato. Andammo con l’ufficiale giudiziario che lo rimetteva al suo posto, prese il libro giornale e ci scrisse il nome del lavoratore. Adesso è incoercibile, quindi il datore di lavoro lo può pagare senza farlo lavorare. E bisogna anche aggiungere che adesso il processo del lavoro costa, non è più completamente gratuito, perché al di sopra di una certa cifra si paga un contributo unificato. Inoltre, il rigetto della domanda del lavoratore viene pesantemente punita con il pagamento delle spese di soccombenza. Tempi lunghi, costi processuali, e infine il timore di una condanna per lite temeraria, tutto questo molto spesso scoraggia il lavoratore ad intraprendere una causa di lavoro».

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