Pugliese d’origine e romano d’adozione, Leonardo Cruciano rappresenta uno dei più importanti creatori di effetti speciali a livello internazionale. Una carriera costellata da molteplici collaborazioni, premi e grandi nomi del cinema come Ridley Scott, Matteo Garrone e della moda come Gucci.
Da Bari a Cinecittà e oltre. Quando hai scelto di fare degli effetti speciali il tuo mestiere?
«In realtà non è stata proprio una scelta, ma come tutte le cose è stato un po’ un divenire. Si tratta di una passione, che per fortuna ha trovato una sua strada. Mi sono laureato in scultura all’Accademia di Bari. Finiti gli studi iniziai a lavorare per una nascente società di produzioni pugliese. Incominciai pian piano a conoscere realtà su Milano e Roma. Poi, colsi una grande occasione, quella di fare l’aiuto attrezzista per una serie dell’HBO, “Rome”. Lì scoprii che esisteva il ruolo del model maker, il realizzatore a tuttotondo. Iniziai allora a sfruttare il mio saper fare a 360°, che mi portò ad avere una bella notorietà all’interno dei reparti di Rome. Al tempo c’ero solo io a ricoprire questo tipo di figura, quindi ero estremamente richiesto. Ho iniziato così a fare una seconda gavetta a Cinecittà, dopo aver lavorato per tante realtà più piccole, che però continuavano a chiudere. Nel giro di poco tempo sono diventato model maker e poi ho avuto la lungimiranza di aprire un mio laboratorio e farmi conoscere sempre di più, lavorando bene e cercando di migliorarmi al massimo».
Raccontaci del passaggio da Makinarium a Baburka Factory.
«Il Leonardo Cruciano Workshop è andato avanti in maniera crescente fino ad arrivare a “Il racconto dei racconti”, ma non avrei potuto affrontare quel film da solo con il mio laboratorio, quindi mettemmo insieme tre società per fare Makinarium. Di lì iniziarono ad arrivare sempre più film americani che trovavano in quel momento una società che aveva un buon livello qualitativo, ma anche delle garanzie. Solo che, come accade per tante cose nella vita, pur crescendo e migliorando sempre di più, è arrivato un momento in cui sono comparse grandi divergenze interne. Quindi, ho preso tutta la parte degli effetti e mi sono distaccato. Avendo tante bocche da sfamare e un portafogli di ordini di lavoro bello pieno, ho pensato che non sarebbe stato giusto ritornare ad essere un singolo, una firma. In quel momento (piena pandemia n.d.r.) Baburka esisteva già, era una piccola produzione indipendente con cui collaboravo. Mi sono chiesto: “Perché non entrare in quella che è già una factory, e renderla una sorta di cooperativa dello spettacolo?”. E così è stato e abbiamo iniziato a lavorare subito e tanto».
Tra le produzioni che hai fatto qual è quella a cui sei più legato e quale è stata la più impegnativa?
«Sicuramente “Il racconto dei racconti” di Matteo Garrone, in un caso e nell’altro, perché è quella da cui si è generato tutto. In quel momento è stato possibile finalmente davvero poter utilizzare manodopera italiana senza dover ricorrere all’estero. C’è stata una sorta di rilancio, dunque, anche del cinema stesso. Dopo di che ci sono state cose bellissime che mi hanno permesso di arrivare anche alla nomination a Los Angeles nei “Guild Award” (Oscar di settore) per “6 Underground” di Micheal Bay».
Il digitale potrà mai sostituire la “vecchia scuola”?
«Questa è una diatriba che va avanti dagli anni ’90, quando si iniziò ad utilizzare sempre di più il digitale. Nel tempo, però, abbiamo notato che, nonostante tutto si stia tecnologicamente evolvendo ogni giorno di più, c’è sempre bisogno della parte “concreta e sporca” per avere un aspetto realistico del film. Bisogna pensare come i prestigiatori: un trucco viene fatto da tanti piccoli effetti, non puoi tralasciarne nessuno e quindi non si può pensare di fare una cosa in una sola maniera, altrimenti il trucco si scopre».
La Puglia sta diventando sempre più un set cinematografico a cielo aperto. Vedi nel tuo futuro la possibilità di un ritorno a casa?
«Certo, ci ripenso sempre. In questo momento ho potuto anche collaborare abbastanza con l’Apulia Film Commission per il museo dell’Apulia Film House. Però, sono molto realista, non bisogna cercare di forzare mai le cose e costruire cattedrali nel deserto. Affinché ci possa essere un laboratorio tipo il mio, in Puglia, è necessario che ci sia richiesta di lavoro e questa va costruita con un discorso molto organico, come ha fatto finora l’Apulia Film Commission. Spero col tempo ci possa essere una Puglia più incline agli effetti».