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Niccolò Fabi: «Mi chiedo se un linguaggio introspettivo abbia senso in questi tempi di guerra» – L’INTERVISTA

Il paesaggio è quello della Val di Sole, un lago ghiacciato davanti e una baita di legno alle spalle. Niccolò Fabi ha scelto di portare lì cinque amici musicisti, non per incidere un disco nel senso tradizionale, ma per vivere un frammento di vita insieme. Da quel ritiro è nato «Libertà negli occhi», un album…
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Il paesaggio è quello della Val di Sole, un lago ghiacciato davanti e una baita di legno alle spalle. Niccolò Fabi ha scelto di portare lì cinque amici musicisti, non per incidere un disco nel senso tradizionale, ma per vivere un frammento di vita insieme. Da quel ritiro è nato «Libertà negli occhi», un album che ha la forma di un’esperienza collettiva prima che di un’opera compiuta. Non canzoni cesellate a tavolino, ma improvvisazioni trasformate in materia viva, brani che si affacciano come «sassolini lasciati dietro per capire da dove si viene».

La musica diventa così un esercizio di attenzione, un modo per dare peso a ciò che accade e che chiede di essere ricordato. E allo stesso tempo un gesto di responsabilità: non ogni scintilla diventa canzone, e non ogni canzone merita la pubblicazione. È in questo spazio fragile, tra necessità e scelta, che Fabi colloca oggi il proprio sguardo. Un percorso che adesso si apre al pubblico con un tour nei teatri italiani, al via il 4 ottobre da Isernia.

Che cosa l’ha guidata nei primi passi nella costruzione di «Libertà negli occhi»?

«Lo spunto iniziale, quando capita – e non capita così spesso – arriva sempre dalla vita. Sono le emozioni e le situazioni che mi colpiscono in modo speciale a farmi sentire il bisogno di capirle meglio, di ricordarle, di dar loro un senso. La scrittura, per me la canzone, diventa una lente di ingrandimento. All’inizio i brani nascono così: come piccoli sassolini lasciati dietro di sé per capire da dove si viene. Non necessariamente pensati per essere pubblicati. La seconda fase è chiedersi se tutto questo meriti di uscire, soprattutto dopo tanti anni di mestiere, quando cresce la responsabilità. Così quei sassolini sono diventati gli elementi di un viaggio che non avevo mai fatto: ritrovarmi in una baita di montagna con cinque amici a condividere vita, prima ancora che musica. Il disco è nato lì, da un’atmosfera autentica, di gioco e di verità».

Le capita spesso di scrivere e tenere il materiale per sé?

«Scrivo poco, non amo la pratica quotidiana della scrittura. Mi sento più un pescatore: resto sulla riva e attendo che qualcosa abbocchi. Proprio perché non succede spesso, la maggior parte delle canzoni che ho scritto erano necessarie, e quindi pubblicate. Non ho grandi tesori chiusi in un cassetto. Non escludo che in futuro possa accadere: scrivere e non pubblicare, se il momento personale o storico non lo giustificasse».

Ha scelto di aprire l’album con «Alba», un brano sospeso, quasi silenzioso, che inizia con un lungo strumentale. Come è nata questa decisione?

«Forse perché è la canzone che rappresentava meglio il nostro stato d’animo. È stata la prima che abbiamo suonato appena montati gli strumenti, davanti a un lago ghiacciato. Non esisteva prima di quel momento: è nata lì, dal suono dell’harmonium e dall’aggiungersi graduale degli altri. Sembrava un’ouverture, come un’orchestra che si accorda. Ho tirato fuori una frase dal taccuino digitale: “Nella pausa che ci fa capire e cambiare”. Ho capito che non servivano molte parole, perché il tappeto sonoro era già denso di significato».

Come si è sviluppata questa residenza artistica con i suoi amici?

«Avevamo poco più di una settimana in Val di Sole, e arrivare senza un’idea precisa sarebbe stato rischioso. Volevo che il lavoro iniziasse e finisse lì. Per questo ho portato con me alcuni brani già in forma compiuta, altri più incerti, oltre a semplici giri di chitarra o parole isolate. Sapevo che il gruppo li avrebbe trasformati. Ed è andata così: alcune canzoni che avevo pronte non le abbiamo fatte, altre sono nate lì, come Chi mi conosce meglio di me, venuta da un’improvvisazione di un pomeriggio. Ho cercato un equilibrio tra certezze e avventure».

In «Nessuna battaglia» lei canta di evoluzione più che di guarigione. Qual è la sua idea di trasformazione personale?

«Credo che la difficoltà più grande per gli esseri umani sia accettare il cambiamento. Ogni trasformazione porta turbamento, ci costringe a rivedere abitudini e visioni, che si tratti di un trasloco, di una separazione, della perdita di una persona cara. Sono esperienze che insegnano e che ci mostrano nuove parti di noi. Possono immobilizzarci o farci fare un passo avanti nella conoscenza di noi stessi. In questo brano la trasformazione riguarda anche il corpo, quando si ammala. È lì che affrontiamo la più grande paura, quella di morire, e in quel confronto emergono aspetti inaspettati».

In «Custodi del fuoco» sembra emergere il tema del passaggio generazionale. Al punto di maturazione artistica a cui è arrivato oggi, si sente un maestro?

«La parola maestro va intesa in senso non accademico. È inevitabile che chi ha vissuto di più doni la propria esperienza. I ragazzi hanno bisogno di figure che selezionino le informazioni, in un mondo dove tutto è accessibile ma non tutto è utile. L’immagine del maestro resta importante. E lo scambio non è a senso unico: anche per l’anziano il rapporto con i giovani è un modo di fare pace con il tempo che resta, senza provare solo nostalgia».

Lei la sente questa nostalgia?

«Certo, come tutti. Ma non considero la gioventù un’età migliore della maturità: sono diverse. L’intensità delle emozioni adulte può essere persino più forte. Per questo mi auguro di arrivare a viverla, l’anzianità. Tornando alla canzone, il punto è non cadere negli estremi: né nel giudicare sempre inferiore il presente rispetto al passato, né nel voler dimostrare a ogni costo di essere ancora giovani esaltando tutto ciò che è nuovo. Non credo che la vitalità si dimostri fingendo di appartenere a un tempo che non è più il nostro».

Oggi il titolo «Libertà negli occhi» assume un peso particolare, in tempi di conflitti e polarizzazioni. Crede che la musica abbia un ruolo politico?

«Me lo domando spesso. Il mio linguaggio è introspettivo: guarda dentro, non descrive direttamente l’esterno. Parlo dei meccanismi psicologici, delle relazioni, non della cronaca. Mi chiedo se, in questo momento storico, abbia senso. Se parte un tour è perché credo che la mia musica possa essere comunque un amplificatore di comprensione reciproca. Più si scava in profondità, più si scopre che siamo simili. E forse da lì può nascere un senso di alleanza».

Se dovesse condensare in una direzione la direzione del suo sguardo oggi, quale sarebbe?

«Verso l’alto».

Perché?

«Perché significa non guardarsi l’ombelico, non restare chiusi nella propria miseria personale, ma alzare lo sguardo verso qualcosa di più grande, che possa consolare».

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