C’è un’Italia che l’8 e 9 giugno andrà a votare. E poi c’è un’Italia che non ci crede più. Che ha smesso di illudersi, che non si fida, che non si aspetta più niente da nessuno. E in mezzo c’è il Sud. Il nostro Sud, quello che da troppo tempo viene chiamato in causa solo quando serve un voto, ma che nella quotidianità viene dimenticato, ignorato, messo all’ultimo posto.
Eppure anche questa volta, come sempre, il Sud sarà determinante. Ci sono cinque quesiti referendari e tanti ballottaggi nei Comuni meridionali. Ma chi ci governa sembra non capirlo, o peggio, far finta di non vederlo: non è più solo una questione politica. È una questione esistenziale. Perché il Mezzogiorno non è una periferia da rabbonire con qualche bonus o con un paio di spot elettorali. È un pezzo di Paese che ha fame. Fame vera. Di lavoro, di giustizia, di dignità, di futuro.
Il primo tema, inutile girarci intorno, è il lavoro. E non basta parlare di flessibilità, di contratti, di licenziamenti: bisogna partire da una verità che molti evitano. Al Sud, il problema non è solo la qualità del lavoro. È la sua assenza. Il lavoro manca. Punto. E quando c’è, è troppo spesso precario, mal pagato, o addirittura in nero. Come si può pensare di scrivere norme sul lavoro senza considerare che nel Meridione la base stessa è fragile? Che qui le regole servono a proteggere prima ancora che a regolare? Il vero referendum che servirebbe è questo: vogliamo un Paese dove il lavoro è un diritto, ovunque? O vogliamo continuare ad avere due Italie, dove una lavora e l’altra emigra?
E poi c’è il tema della cittadinanza. Anche lì, si vota per decidere se chi vive da anni nel nostro Paese, lavora, paga le tasse, cresce figli italiani, debba ancora aspettare anni per sentirsi riconosciuto. E qui, ancora una volta, il Sud è protagonista. Perché nelle nostre scuole, nelle nostre piazze, nei nostri ospedali, vivono migliaia di persone che sono italiane di fatto, ma non di diritto. Persone che fanno parte del tessuto vivo delle nostre comunità, ma che restano ai margini per legge. È tempo di decidere se vogliamo costruire un Sud inclusivo, moderno, europeo. Oppure se vogliamo continuare a tenerlo ancorato a paure e chiusure che non ci appartengono.
Ma forse la partita più concreta si gioca ai ballottaggi nei Comuni. Nelle stanze dove si decide come funzionerà la scuola sotto casa, se ci sarà l’autobus per andare a lavorare, se i rifiuti verranno raccolti o resteranno per strada. È lì che dobbiamo pretendere una nuova classe dirigente. Gente presente, competente, pulita. Non cerchiamo santi. Cerchiamo amministratori che ascoltano, che decidono, che restano. Che non si vedono solo prima del voto.
Perché il cambiamento non passa solo dalle leggi, ma dalla cultura. E andare a votare è un atto culturale. È dire: io non mi arrendo. È dire: io ci sono. È dire: il Sud non è silenzioso, non è rassegnato, non è passivo. È vivo. È stanco, sì, ma ancora in piedi. E ha deciso di contare.
Il Mezzogiorno ha fame. Ma non di contentini. Ha fame di rispetto. Di diritti. Di investimenti veri. Di futuro. Ha fame di essere guardato in faccia, non dall’alto in basso. E forse, anche solo con una scheda in mano, può iniziare a prenderselo da solo, quel rispetto. Perché nessuno ci regalerà nulla. Ma possiamo iniziare a riprenderci tutto.
Ecco perché non possiamo stare fermi. Perché stavolta non si vota solo per cambiare una legge o per eleggere un sindaco. Si vota per decidere se vogliamo ancora avere voce. O se continueremo a farci bastare il silenzio.