Andare a votare per ridare dignità al lavoro e agli immigrati oltre che all’Italia intera? Certo. Ma c’è un altro motivo addirittura più pregnante: restituire diritto di cittadinanza al confronto e salvare dall’estinzione il dissenso. Allora il referendum di domenica e lunedì è quel che ci vuole per rimettere in piedi un’Italia rovesciata, se mai i suoi cittadini usciranno dal letargo e ignoreranno gli inviti del Governo, della maggioranza che lo sostiene e del presidente del Senato a disertare le urne sventando e magari coprendo di ridicolo il tentativo di svuotare la dialettica democratica cancellando il dissenso, disinformando e limitando le possibilità oltre che la volontà ad esprimerlo addirittura inibendo gli spazi in cui esso si può e si deve esprimere. È la risposta necessaria per fermare il declino della nostra democrazia, incamminata a diventare democratura. Non è questione da poco. C’è un momento nella vita degli uomini e dei popoli in cui si impone il dovere morale, prima che civile, di negare e contraddire la volontà del potere pena il manifestarsi di una nemesi che potrebbe schiacciarli e condannarli alla assuefazione ad una vita da sudditi.
I greci escogitarono l’ostracismo per preservare gli equilibri della polis ponendola al riparo dalle possibili conseguenze dell’azione degli oppositori. La tirannide, forma di governo monocratica che non ammetteva dissenso e rendeva il popolo schiavo, secondo la definizione di Erodoto, era sempre in agguato, anche se era al popolo che il tiranno faceva riferimento per avallare o consolidare il proprio potere. Le poleis si trovarono così ad affrontare la questione del cambiamento e dell’impatto del dissenso rispetto all’azione del governo. La democrazia greca doveva fare i conti con un’oligarchia di origine aristocratica spesso rissosa che deteneva ricchezze e potere e decideva le sorti stesse della città, ma anche con il popolo che talora si produceva in sommosse soprattutto quando l’eccessiva concentrazione delle ricchezze negli oligarchi lo estrometteva dalla loro distribuzione. Gli imperatori romani risolsero la faccenda elargendo “panem et circenses”. Nella stessa Roma antica il potere monocratico prevalse quando la repubblica venne sopraffatta dall’impero. Bisognerà attendere il Rinascimento perché le antiche poleis riemergessero nei liberi comuni che, tuttavia, evolsero anch’essi rapidamente in signorie quando non confluirono nei recinti di re e imperatori. E bisognerà attendere l’Illuminismo, la rivoluzione francese e la guerra civile nordamericana per la definitiva consacrazione del potere del popolo che peraltro dovette sempre fare i conti con le derive monocratiche che poi, nei tempi moderni, avrebbero assunto la forma conclamata delle dittature che si appellavano al popolo, salvo privare quest’ultimo di ogni diritto, compreso quello di dissentire. La democrazia, quella nata dall’Illuminismo, era l’unica ad aver assunto il dissenso come dato fisiologico del proprio essere, affermarsi e progredire. E arriviamo alla contemporaneità, alle aberrazioni di dittature e regimi totalitari che negarono il dissenso con ogni forma di violenza sino a quelle estreme. Servirono guerre estreme anch’esse per venir fuori dalle dittature. E servirono sofferenze altrettanto inaudite e lunghe per la consunzione dei regimi totalitari. Le democrazie si diedero delle costituzioni che le avrebbero dovute difendere da ogni recrudescenza violenta. Vi erano parlamenti e governi, istituzioni e magistrature atte a definire e garantire i percorsi dei popoli. E leggi furono varate per regolarne il funzionamento. Tra queste anche le leggi sui referendum che stabilivano la diretta chiamata alle urne del popolo per sciogliere dilemmi e affermare principi fondamentali per essi. I mutamenti di competenze e attribuzioni del governo venivano sottoposti a procedure severe che contemplavano il pronunciamento popolare. I mutamenti epocali del sentire sociale, laico e religioso, vennero sanciti dai referendum e con essi l’allargamento degli spazi di civiltà e di liberazione del popolo. L’espressione del voto era sale e lievito della democrazia. i referendum avevano un’aura di sacralità che si traduceva in una mobilitazione di gente, movimenti e partiti politici che su di essa basavano la propria legittimazione.
Poi il tempo e le incrostazioni della rappresentanza popolare cominciarono ad affievolire l’entusiasmo e a ridurre la partecipazione. L’economia prese il sopravvento sulla politica. Le devianze ipercapitalistiche imposero i loro interessi che tracimarono ovunque travolgendo le istituzioni che per sé teorizzarono, al pari delle aziende multinazionali, efficienza di costi ed efficacia di risultati contro ogni idea, ritenuta inutilmente e assurdamente utopistica, di benessere, felicità e partecipazione collettiva. Le privatizzazioni fecero il resto. E anche le istanze democratiche subirono un deciso declino. E seguì anche la “mutazione genetica” dei lavoratori, divenuti “forza lavoro” o “merce” da offrire su un mercato sempre più inflazionato che la pagava sempre meno avendone negato ogni valore umano, culturale e contenuto di libertà. Così la società cominciò a imbarbarirsi, a negare la cultura e a deridere ogni espressione di crescita civile, sociale, individuale e collettiva. Per la gente, disillusa, prevalse la necessità di sopravvivere. La competizione non lasciava spazio a pensiero, solidarietà e vita partecipata. Il lavoro finì di essere un percorso di affermazione individuale e liberazione sociale per assurgere al ruolo di rimedio necessario quanto estemporaneo per tirare avanti alla meno peggio e magari da barattare con qualche bonus. Gli ospedali divennero aziende. Anche le scuole divennero aziende e pure le università si adattarono a mettere in cima ai loro obiettivi la competizione che intanto veicolava nei gangli del potere, dal governo al parlamento, alle istituzioni, la cooptazione contrabbandata per meritocrazia, rinunciando al sapere e alle competenze oltre che alla giustizia sociale e alla crescita civile. La democrazia autoritaria avanzava verso la democratura coltivando il desiderio di trasformarsi, più in là, in dittatura conclamata, magari avallata da periodici successi elettorali costruiti su parole d’ordine e slogan vuoti quanto consunti e irrispettosi per i propri stessi connazionali nel frattempo espatriati all’estero in massa. La difesa dei confini della “patria” contro “invasori” inermi e disarmati oltre che stanchi e affamati venne affermata addirittura in termini epici come se dal mare arrivasse un’armata pronta a oscurare il sole e ad annientare la sopravvivenza stessa della nazione. Quanti erano, finalmente, entrati furono posti in “quarantena decennale” per ottenere la residenza per sé e i propri figli, nel luogo dove vivevano e lavoravano, essendo nel frattempo divenuti parte integrante e benemerita della società italiana in caduta libera quanto a crescita demografica e a lavoratori, tutti in fuga verso l’estero.
Nel frattempo le elezioni non erano più così importanti. La gente prese a non recarsi più alle urne per eleggere rappresentanti che avevano sempre più le stigmate dei predestinati e cooptati. La coscienza civile e culturale, dapprima ignorata e poi distorta con somministrazioni di dosi massicce di vuoto edonismo e ignoranza gratuita, era stata ridotta anch’essa a una dimensione di intorpidimento. I referendum previsti dalla Costituzione, al pari del lavoro, furono svuotati del loro senso e ridotti a superfetazioni istituzionali inutili e fastidiose. Di pari passo il dissenso era stato derubricato a rumore di fondo da cancellare per non disturbare i manovratori alla guida del Paese. Non era più un diritto sacrosanto ma addirittura un reato dissentire, protestare. Leggi in tal senso venivano varate e immaginate a spron battuto.
Ecco perché andare a votare assume oggi un valore etico e morale che riempie di contenuto esistenziale l’obiettivo referendario di ripristinare i diritti del lavoro cancellati e di riconoscere quelli ancora negati a quanti, immigrati e figli di immigrati, vivono e lavorano in questo paese. Esprimersi sui cinque quesiti referendari significa quindi riaffermare il valore costituzionale del lavoro contro la mercificazione di esso e affermare il primato dell’integrazione dei migranti che risponde allo stesso interesse nazionale in un Paese in declino demografico e in affanno rispetto alle necessità dell’apparato economico-produttivo e alle esigenze del più ampio sistema sociale. È tempo, dunque, di ribadire nelle urne il valore del lavoro per come esso è declinato dalla Costituzione e di esprimere la volontà inclusiva della nazione per quanti sono arrivati e si sono integrati in essa, secondo lo spirito della stessa Costituzione. Ed è anche tempo di fermare il disimpegno che spinge la democrazia verso la democratura che, ahimè, fa rima con dittatura. Si tratta di fermare, finché si è in tempo, la nemesi della storia.
Bentornato,
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