Un nuovo rapporto sull’analfabetismo funzionale, pubblicato qualche giorno fa, ha fatto una fotografia impietosa del grado culturale del nostro paese: la capacità di leggere e comprendere testi scritti e informazioni numeriche degli italiani si posiziona dai quindici ai venti punti sotto la media Ocse, avanti solo a Israele, Lituania, Polonia, Portogallo e Cile.
Un altro dato che emerge riguarda la differenza tra gli adulti e i giovani con un divario di competenze a favore di questi ultimi. Sicuramente ci potrebbe far ben sperare se poi non scoprissimo che i laureati di oggi mostrano livelli di preparazione inferiori rispetto ai loro predecessori e che un diplomato finlandese sarebbe più colto di un laureato italiano.
Inoltre, nel paese di Dante, Petrarca e Manzoni si legge sempre meno, tanto che gli ultimi dati Aie (Associazione Italiana Editori) indicano che si sono smarriti circa un milione di lettori e che ogni anno il tempo dedicato ai libri decresce di trenta minuti. Forse abbiamo perso il piacere di studiare, quello “studium” che per i romani era lo zelo, il desiderio, la passione, perché il verbo studiare significava anche dedicarsi, applicarsi, aspirare a qualcosa, amare. E quindi in ultima analisi lo studio non è altro che un atto d’amore per la conoscenza, per il sapere.
Quello stesso “sapere” che differisce solo per una vocale da “sapore” e che rappresenta il gusto della vita. Ma dopotutto oltre duemila anni fa, in Grecia, qualcuno già diceva che il sapere rende liberi.