Magari bastasse l’indignazione, il furore del giorno dopo. Non è così. Non è mai stato così. E non bisogna scomodare le passioni tristi ovvero altre circumnavigazioni retoriche. Il teatro delle dichiarazioni contrite non sposta di un millimetro la cifra del nostro disincanto, della nostra rabbia.
Ventotene è stata rinnegata, nei fatti, a Lesbo; è stata rinnegata nelle politiche di rigore che hanno affamato un ceto medio erodendo la democrazia di pane, di sostanza. L’Europa fortezza è stata svuotata del suo logos, della sua narrazione. Una narrazione mediterranea, fatta di inclusione vera e non declamata. Una narrazione che parla a Kiev avendo nel cuore Gaza.
L’Europa che – scorgendo pericoli sistemici inediti pensa al suo riarmo – si preoccupa della security trascurando tragicamente la safety, la sua sicurezza interna, è affetta da miopia: non vede lontano. Anzi, non vede. Non vede un tessuto sociale europeo sfinito: non vede le sue periferie sguarnite di senso e di protezione sociale: non vede le rivendicazioni nazionaliste che si nutrono di questa pasta facendone un lievito esplosivo.
Si impone, sullo sfondo, lo sdoganamento della guerra quale orizzonte ineluttabile. Una narrazione oscena, declamata con protervia antica, con posture da coglioni. La guerra quale volano di ogni futuro sviluppo industriale ma anche tecnologico, scientifico. Non ancora “igiene del mondo” ma sicuramente variabile importante per diverse riconversioni industriali.
Siamo arrivati fin qui, in scioltezza, in surplace. Venendo meno, giorno dopo giorno, ai nostri doveri, alla cura della cosa comune, della democrazia. Una cura feriale, banale, difficile. Una cura necessaria che abbiamo tragicamente omesso. Abbiamo anche omesso di fare autocritica: come siamo arrivati fin qui? E, per essere arrivati fin qui, prima che diavolo è accaduto?
Come naturale contrappasso, forse l’unico, la tenuta di papa Francesco. Per quanto corto nel suo respito le sue parole affamate di aria si stagliano come orizzonte vitale: luce, allo stato puro.
Dovevo avere sei, sette anni. Era il tempo del trasloco – l’unico – dalla mia casa sul corso a quella di sempre. Era primavera inoltrata e mi muovevo affianco a mio padre nell’intento, maldestro, di aiutare la baracca nelle incombenze di rito.
Nel fare il lavoro più duro si presentò un signore corpulento che ci aveva fatto il favore di metterci a disposizione la sua forza e il suo camion. Si chiamava Michele. Ed aveva perennemente una sigaretta situata sul precipizio delle labbra. A parte questo, ogni suo sforzo era accompagnato da una bestemmia. La parete di quella casa umida e fredda era diventata, all’improvviso, la Cappella Sistina.
Quel pomeriggio, all’ennesimo accumulo di cenere – una specie di sigaretta ombra – questo signore chiese a mio padre un posacenere. Trovarne durante un trasloco non è cosa da niente. Mio padre gli mise a disposizione un piattino raffigurante l’effigie di papa Giovanni XXIII: era una cosa che gli si assomigliava. Il tipo, visto il piattino, squadrò mia padre e gli disse: “La polvere in faccia a questo io non la metto”.
Rimasi di stucco e quel piattino, dopo circa cinquant’anni, è ancora con me. Più in là quel bigliettino vergato da Tonino Bello. Li squadravo mentre mi accingevo a scrivere queste note. Penso a loro, alle loro vite, a questi giorni vuoti e dolorosi.
Bentornato,
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