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Con l’autonomia differenziata applicata alla scuola ecco l’istruzione “à la carte”

La scuola si può regionalizzare? In realtà servono robuste leggi cornice per definire con chiarezza cosa deve trattenere per sé lo Stato: ad esempio, i criteri selettivi per la docenza, i titoli di studio e così via. C’è invece il pericolo di autorizzare un serio disfacimento scolastico.

In Italia, negli ultimi anni, il livello di insegnamento nelle scuole e negli atenei ha subito un calo preoccupante. Non solo. Migliaia di giovani preparati, competenti e capaci, a spese dello Stato italiano, preferiscono l’esodo in Paesi anglosassoni o europei. E in questo c’entra l’oscenità della autonomia differenziata. Perché quando si vuole modificare tout-court un sistema complesso come la scuola, bisogna fare attenzione. Le riforme devono migliorare il Paese, non accentuarne il degrado. E il conto di questa fuga all’estero dei nostri migliori cervelli è già salatissimo.

La legge Calderoli apre di fatto a una scuola regionalizzata, à la carte. Con quel che ne consegue: il rischio di professori assunti dalle Regioni e non più dal Ministero, cioè dallo Stato. Raddoppio delle funzioni e, di conseguenza, dei costi. Da una parte i palazzi della Pubblica amministrazione a Roma svuotati. Dall’altra il budget delle Regioni che impenna per farsi carico del corpo docente e del personale scolastico. E ancora: inquadramenti contrattuali di docenti e collaboratori, retribuzioni, sistemi di reclutamento e valutazione. Su tutto questo le Regioni potrebbero avere l’ultima parola.

Lo stesso vale per i programmi scolastici: una volta ottenuta la delega sull’istruzione, sarebbero ancora le Regioni a decidere il menu delle materie e la tabella di marcia sui banchi di scuola. L’ipotesi mette in allarme i sindacati: «Affidare il reclutamento del personale alle Regioni significa creare differenze tra stipendi e contratti, dunque indebolire un’intera categoria». Ma il piano suscita preoccupazione anche nella maggioranza.

Ministro e sottosegretari garantiscono l’uniformità del sistema di assunzione e dei programmi, e assicurano che lo “spezzatino” del corpo docenti e dei suoi costi tra governo e Regioni non ci sarà. Eppure il rischio c’è. Nelle intese firmate dalle Regioni che nel 2017 hanno chiesto l’autonomia – Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna – c’era il pacchetto completo. Assunzioni, concorsi, «fondi integrativi». Inclusi i programmi scolastici: nel 2018 Zaia ha perfino firmato un protocollo con il ministero dell’Istruzione perché si insegnasse nelle aule della regione «la storia dell’emigrazione veneta».

Un corso sulla Serenissima e le sue vicende per tutti, «un’anteprima dell’autonomia regionale che verrà», appunto. Sei anni dopo il destino di un comparto da 1 milione di dipendenti rimane in bilico. Includere la scuola nelle intese tra Stato e Regioni significa dare a queste ultime la possibilità di decidere su stipendi e assunzioni con una drastica riduzione delle competenze dei Ministeri che si troverebbero svuotati e una probabile desertificazione di Roma e dei suoi apparati. Secondo alcuni la spesa media pro-capite al Centro-Nord, e segnatamente in Veneto e Lombardia, è più bassa che nel Mezzogiorno, e quindi una maggiore “autonomia” anche in tema di finanziamenti garantirebbe maggiore equità.

Gli effetti che un sottofinanziamento al Mezzogiorno provoca e provocherebbe ulteriormente: denatalità, emigrazione, carenza quindi di bambini e ragazzi in età scolare e universitaria, che emigrerebbero nelle Città, Scuole e Università del Nord, da documenti “riservati” che stanno girando in questi giorni, sembra che sia diventato “il motivo” per cui bisogna dare meno soldi a Comuni e Regioni del Sud! Capite? Una oscenità! I soldi che Veneto e Lombardia hanno attualmente sono pochi! E sono molti che ha/avrebbe l’intero Mezzogiorno! Bisogna quindi al più … lasciare le cose come stanno (è il massimo che sembrano disposti a concedere. Non ci si crede). E ancora. Pochi o … molti, misurati in base a quale parametro? La popolazione. Ovviamente chiunque, di buon senso, capisce che il parametro deve essere il numero di studenti, non di abitanti. Un altro trucco, peraltro, è sempre considerare la sola spesa statale (in pratica, gli stipendi). E il trasporto scolastico? E la mensa? E il doposcuola (si stima in circa 1000 ore in 5 anni la differenza di “frequenza”, praticamente un anno in meno su 5! Tra Comuni del Nord e moti Comuni del Sud)? E le vacanze per gli studenti, in alcuni casi pagate da Regione e Comuni al Nord? Tutti soldi che non esistono neanche a pensarci al Sud, ma che sono “normali” in moltissime realtà del Centro-Nord. Infine, non strettamente legato ai finanziamenti, va considerato l’effetto di legalità e di aggregazione civile e sociale che nel Mezzogiorno svolgono scuole e Istituti di Formazione superiore. Per questi e altri motivi, ogni ipotesi di autonomia che coinvolga l’istruzione darebbe un colpo, temo definitivo, all’unità del Paese.

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