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Jazz e dialetto, due linguaggi di ribellione

Un monologo per raccontare una storia importante, quella del grande contrabbassista Charles Mingus. Un uomo ossessionato dal jazz ma che il jazz l’ha tanto amato e usato per comunicare stati d’animo ed urlare contro la discriminazione razziale. Sul palco del teatro Kismet, sabato 27 novembre e in replica domenica 28, l’attore e autore Antonio Campobasso…
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Un monologo per raccontare una storia importante, quella del grande contrabbassista Charles Mingus. Un uomo ossessionato dal jazz ma che il jazz l’ha tanto amato e usato per comunicare stati d’animo ed urlare contro la discriminazione razziale.

Sul palco del teatro Kismet, sabato 27 novembre e in replica domenica 28, l’attore e autore Antonio Campobasso ha raccontato la sua vita e la vita di Mingus, perché hanno molto in comune, umanamente ed artisticamente. Un viaggio a rischio nella memoria inquieta e pericolosamente creativa del personaggio più molesto della storia del jazz. In questo spettacolo, “Bastardo Acustico”, l’attore gioca con le parole come un jazzista improvvisa con le note. Affronta la resilienza, la rabbia, la felicità e l’ironia con assoli dialettali e tanti momenti legati da un ritmo dato a parole, scritte proprio come fosse una partitura jazz.

Perché è così legato al jazz?
«Perché è una prepotente resurrezione malgrado il mondo dell’uomo bianco. Il jazz ha fatto risorgere la cultura afro a nuova vita. Gli inglesi hanno Shakespeare, l’Italia ha Dante e gli afroamericani hanno il jazz. È un linguaggio di riscatto, di ribellione. È come il dialetto».

Cosa centra il dialetto triggianese con la storia di Mingus?
«Tutto ciò che non centra con Mingus centra con la mia storia. Una drammaturgia blasfema, la mia, segnata da sfuriate verbali in dialetto che uso come lingua di guerra, perché ancora oggi viviamo l’emarginazione o il razzismo, che sono una condizione di guerra. Magari se possono li pestano ma io non ci sto e quindi uso il dialetto come Mingus usava il Jazz per le sue lotte. Uso il dialetto perché è molto più intenso della lingua italiana nata a tavolino. Il dialetto è nato nella vita delle persone quindi lo uso come linguaggio».

È l’unico spettacolo i cui usa il dialetto?
«No, ho usato il dialetto triggianese anche in Otello. E l’effetto è dirompente, perché lo spettatore che sta vedendo Shakespeare appena ascolta il dialetto capisce prima il senso di quello che si vuole dire facendosi scappare anche un sorriso. A Triggiano mi capiscono subito. In altre zone d’Italia un po’ meno ma parlare sempre con il triggianese vecchio fa molto effetto».

Di cosa abbiamo bisogno per migliorare la qualità culturale della nostra vita?
«C’è bisogno che tutti i vari settori della società si attivino non si può stare ancora così. Il teatro, la poesia, la letteratura, la musica hanno senso. Il jazz, la lirica qualunque cosa. Spero che ci salvino e che ci tengano svegli. Noi non siamo colpevoli, ma lo saremo se ignoreremo tutto questo».

Cosa potrebbe dirci Charles Mingus se fosse ora con noi?
«Non parlerebbe. Farebbe un assolo di contrabbasso. E lo farebbe parlare come in Africa: una volta si usava il ritmo per comunicare a grande distanza con dei tamburi che quasi imitavano la voce. Ecco io penso che lui userebbe il contrabbasso in questo senso e cercherebbe di farlo parlare».

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