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“Il Cantico”, Branduardi torna in tour: «La musica che mi fa incazzare? La trap» – L’INTERVISTA

C’è chi rincorre il successo e chi, come Angelo Branduardi, ci inciampa dentro mentre insegue l’assoluto. Cinquantadue anni di carriera, milioni di dischi venduti, concerti in tutto il mondo e ancora nessuna voglia di omologarsi. È stato rockstar quando andava di moda esserlo, ma a modo suo: con il violino in braccio, i capelli da…
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C’è chi rincorre il successo e chi, come Angelo Branduardi, ci inciampa dentro mentre insegue l’assoluto. Cinquantadue anni di carriera, milioni di dischi venduti, concerti in tutto il mondo e ancora nessuna voglia di omologarsi. È stato rockstar quando andava di moda esserlo, ma a modo suo: con il violino in braccio, i capelli da profeta errante e la testa immersa tra Tolkien e San Francesco. Lo incontriamo alla vigilia del suo nuovo tour “Il Cantico”, che lo porterà sul palco del Teatro Petruzzelli di Bari il 24 maggio, per celebrare gli 800 anni del Cantico delle Creature. Un viaggio mistico e musicale nel cuore del francescanesimo, tra poesia, spiritualità e quella ribellione gentile che da sempre lo distingue. Branduardi è un’anomalia luminosa nel mondo della musica. E meno male.

Due temi ricorrenti nella sua musica sono l’infanzia e l’innocenza. Che bambino è stato Angelo Branduardi?

«Sono stato quello che si chiama un baby boomer, un figlio della guerra, perché sono nato negli anni ’50. Me lo ricordo vagamente, ma dove abitavo, all’angiporto di Genova, c’erano ancora tutte le macerie intorno. Sono stato un bambino fortunato, perché ho trovato presto il violino. Ho cominciato a suonarlo a cinque anni e mi sono divertito, anche se c’erano delle cose che non potevo fare».

Cosa non poteva fare?

«Per esempio, non potevo giocare a pallone, dovevo stare attento alle mani. Anche se poi ci giocavo lo stesso (sorride ndr). Ero abbastanza scapestrato, comunque. Non ero un bambino troppo ubbidiente, né con il maestro né con mia madre».

Perché proprio il violino e non strumenti più “immediati”, come la chitarra o il pianoforte?

«In realtà io volevo suonare il pianoforte. Avevano fatto un corso con il metodo Montessori, che dà molta importanza alla musica. Ma il pianoforte non ci stava in casa ed era anche troppo caro. Mio padre, che non suonava niente ma era un grande melomane, mi portò da un professore famoso. Quando aprì la custodia e vidi quel violino… mi ricordo il profumo. Era l’odore della cera. Era uno Steiner, un violino della seconda metà del Seicento, suonato per secoli a lume di candela. Senza nemmeno sentirlo suonare, dissi: “Questo è il mio strumento”».

Guardando la scena musicale moderna, ha mai pensato: “Se nascessi oggi, non avrei possibilità nel mondo della musica”? O crede che il talento trovi sempre la sua strada?

«Non lo so. Non conosco molto la produzione musicale di oggi. So che non esistono più i talent scout, quelli che una volta scoprivano i talenti, li coltivavano, li aiutavano a crescere. Oggi si guarda YouTube: chi ha più visualizzazioni, gli si fa fare un disco. Non è una mia opinione, è una statistica. La media di carriera di un artista di oggi, che sia cantante, autore, quello che è, è di due anni e mezzo. Io ho cinquantadue anni di carriera e vado ancora in giro a suonare».

Nella sua musica c’è sempre un forte senso di spiritualità, ma mai un tono catechistico. Dove finisce il mistico e dove inizia il pagano, per Angelo Branduardi?

«C’è l’uno e l’altro, si contemplano. La musica è metà lupo e metà agnello. Anch’io sono così: metà lupo, metà agnello. La musica è melodia, certo, ma è anche ritmo. Probabilmente, il ritmo è stata la prima forma di espressione musicale dell’umanità. La spiritualità è importante, ma è importante anche Dioniso (sorride ndr)».

Ha mai avuto la tentazione di lasciar tutto e fare un disco completamente elettronico?

«Assolutamente no (ride ndr). Ma ho usato molto l’elettronica. Ho fatto anche dischi strani. Ma non me ne frega niente».

E infatti lei è stato “fuori moda” anche nei momenti di massimo successo. Quanto le ha giovato questa distanza dal mainstream per rimanere fedele al suo modo di fare musica?

«Ma a mio modo sono sempre stato nel mainstream: ho venduto milioni di dischi, in Italia e all’estero. Sono uno dei pochi italiani che ha avuto grande successo di vendita internazionale. Ma è vero: sono rimasto fedele a me stesso. Ho sempre fatto tutto quello che volevo, e ho pagato questa scelta con sei anni di lunga gavetta, perché facevo una musica strana, che nessuno aveva mai ascoltato. Poi ho incontrato una persona, David Zard, il famoso promoter, a cui piaceva molto quello che facevo. Così è iniziato tutto. Per oltre vent’anni ho fatto la rockstar: 20-30mila persone al giorno, fino ad arrivare a 140mila paganti a Parigi, sulla pista dell’aeroporto del Bourget. Quella sera ho capito che non era più roba mia, anche se in quei vent’anni, mi sono divertito molto. Ho deciso quindi che avrei ricominciato dal “meno c’è, più c’è”. Anche se questa virata era vista male dalle case discografiche, ho piazzato altri successi internazionali. “L’infinitamente piccolo”, il disco sulle fonti francescane, non lo voleva fare nessuno. Come “Alla fiera dell’Est”, del resto. E poi è diventato un successo mondiale, con oltre 30 concerti. Lì ho detto “dovete farmi santo subito” (sorride ndr)».

Perché “Alla fiera dell’Est non la voleva fare nessuno?”

«Perché io e Zard abbiamo girato un anno per trovare qualcuno interessato. Normalmente, quando i discografici sentivano la parola “topolino” si mettevano a ridere. Invece è una canzone di estrema violenza. Ed è bello che sia diventata una canzone di tutti. I bambini, a cui viene cantata per farli dormire, non sanno certo chi è Branduardi, ma il topolino lo conoscono. Questo vuol dire che è diventata parte del patrimonio popolare. Un pizzico di immortalità».

C’è una musica che la fa incazzare?

«Il trap. Quando l’ho ascoltato, mi sembrava misogino, omofobo, pieno di brutte immagini. Non mi piace: né per la musica, né per l’autotune che è ridicolo, né per i contenuti».

C’è stato un momento nella sua carriera in cui si è sentito perso? In cui ha pensato di non riuscire più ad esprimersi artisticamente?

«L’ispirazione non arriva ogni minuto, bisogna saperla aspettare. Non sono io che scelgo la musica, è la musica che sceglie me. L’attesa dell’ispirazione può essere un po’ sofferta, ma fa parte del processo della creazione».

E come vive quei momenti di attesa?

«Smettendo di suonare in quel momento, aspettando tempi migliori».

C’è qualcosa in cui si rifugia, in quei momenti?

«Vado in barca a vela (sorride ndr)».

Cosa c’è sul comodino di Angelo Branduardi?

«Vari libri. Sto rileggendo per la centesima volta “Il Signore degli Anelli”».

Le piace?

«Madonna. L’ho letto la prima volta in inglese e me ne sono innamorato».

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