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Bari, al cinema con il sindaco. Leccese presenta “Il cacciatore” di Michael Cimino: «Quel film mi ha cambiato la vita» – L’INTERVISTA

Partirà domani, alle 20.30 al Multicinema Galleria, la rassegna cinematografica «Film che lasciano il segno» curata da Enzo Augusto, che sarà articolata in tre film con cadenza mensile fino a febbraio. L’avvocato e cinefilo barese ha chiesto a tre personalità della politica e della cultura, tutti appassionati di cinema, di indicare il film che, a…
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Partirà domani, alle 20.30 al Multicinema Galleria, la rassegna cinematografica «Film che lasciano il segno» curata da Enzo Augusto, che sarà articolata in tre film con cadenza mensile fino a febbraio.

L’avvocato e cinefilo barese ha chiesto a tre personalità della politica e della cultura, tutti appassionati di cinema, di indicare il film che, a loro, ha lasciato il segno, e di parlarne prima della proiezione. Hanno accettato l’idea Vito Leccese, sindaco di Bari, che ha scelto Il Cacciatore di Michael Cimino, Daniela Mazzucca, Presidente della Fondazione Di Vagno, già Sindaca di Bari, con L’insulto del regista libanese Ziad Doueiri, e Roberto Bellotti, Rettore dell’Università di Bari, che ha scelto Fino alla Fine del Mondo di Wim Wenders.

Il primo film sarà gratuito, fino ad esaurimento dei posti (che saranno non pochi nella Sala grande del Galleria), perché Francesco Santalucia del Multicinema viene spesso incontro a iniziative culturali anche se non di carattere strettamente commerciale. Vito Leccese anticipa le ragioni della sua scelta cinematografica.

Sindaco, perché ha scelto proprio Il Cacciatore per questa rassegna?

«Perché non cercavo un film che mi fosse semplicemente piaciuto, ma un’opera che mi avesse emozionato, turbato, inciso nel profondo. Il Cacciatore è quel tipo di cinema che non accompagna: scuote. Ringrazio Enzo Augusto per l’invito, perché questa scelta mi ha riportato a un momento fondativo della mia vita».

Che periodo era quando lo vide per la prima volta?

«Era il 1979, io uno studente. Vivevamo anni attraversati da contraddizioni brucianti: il vento dei movimenti del ’77 ci aveva fatto credere che la storia potesse davvero piegarsi alle nostre scelte. Discutevamo per ore di pace, libertà, uguaglianza; poi uscivamo nel buio, con la sensazione misteriosa che tutto fosse possibile e, allo stesso tempo, con un’inquietudine che non riuscivamo a nominare».

E cosa accadde quando entrò in sala?

«Pensavo di vedere un film sulla guerra; ne uscii convinto che parlasse di me, di noi. Della paura di diventare adulti, della fragilità degli affetti, dell’amicizia come unica difesa contro ciò che non controlliamo. Capì allora che la pace non è un automatismo della storia: è una conquista fragile».

Il film venne spesso letto come un’opera ideologica. Lei come lo interpreta?

«È un errore. Cimino non vuole impartire lezioni politiche: vuole farci smarrire dentro la verità dei sentimenti. Ci costringe a sentire la paura, la perdita, la precarietà dell’uomo in balia del caos. È un film da vivere, non da usare come prova a favore di una tesi».

Quali scene la colpirono di più?

«La caccia al cervo. Quel “one shot” non è solo una tecnica: è un’illusione morale, il tentativo di controllare ciò che nessuno controlla davvero. Il cervo diventa un presagio: la vita innocente destinata a essere travolta dalla guerra. Ed è già tutto lì, prima ancora degli elicotteri, delle gabbie, della roulette russa che trasforma i protagonisti in ombre di ciò che erano».

Ha citato spesso il valore umano del film. Perché è così centrale?

«Perché la guerra può lacerare tutto, tranne la radice più profonda della nostra umanità. Lo vediamo nei tre amici: due tornano mutilati nel corpo e nello spirito, uno resta intrappolato nella follia di Saigon. Ma qualcosa resiste: l’amicizia, la lealtà, la necessità dell’altro».

C’è anche una dimensione legata alla storia della produzione.

«Sì, ed è una ferita nella ferita: l’ultima apparizione di John Cazale, già malato. I produttori volevano sostituirlo; Cimino, Meryl Streep e De Niro lo difesero. È un esempio di come questo film sia impregnato di vita reale, non solo di finzione».

Che risonanza ha oggi, per lei, da amministratore?

«Ogni giorno siamo chiamati a difendere ciò che il film mette al centro: la responsabilità verso l’altro e la comunità che sostiene chi torna ferito. E mentre nel mondo tornano parole come “attacco preventivo”, Il Cacciatore ci ricorda che la guerra non inizia quando esplodono le bombe, ma quando scegliamo le parole sbagliate».

E qual è il messaggio che consegna al presente?

«Che non possiamo guardare la guerra come un videogioco né illuderci che un solo colpo basti a fermare la follia. Il film ci riguarda qui, ora. Dice che dietro ogni bandiera c’è un essere umano. E che l’unica via, quando tutto vacilla, è continuare a essere umani. Insieme».

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