In pericolo, «letteralmente terrorizzata». Si è sentita così, per anni prima, e per mesi poi, una psicologa barese, al centro delle attenzioni persecutorie di un 38enne, suo paziente nel 2013 e diventato poi il suo peggiore incubo. Si è conclusa con l’arresto dell’uomo una vicenda che, per molti versi, ricorda l’altra, clamorosa e agghiacciante, dell’omicidio di Paola Labriola, avvenuto il 4 settembre 2013 all’interno del centro di salute mentale di via Tenente Casale, nel quartiere Libertà di Bari.
Quella mattina, la psichiatra barese aveva ricevuto un paziente, Vincenzo Poliseno, che pochi minuti dopo essersi seduto di fronte a lei l’aveva aggredita e accoltellata 57 volte. L’uomo, condannato a 30 anni di reclusione con sentenza definitiva, non era stato controllato all’ingresso, dove mancava un presidio adeguato a tutelare gli specialisti che vi lavoravano.
Oggi quel centro non esiste più, è stato chiuso, e l’ex dg della Asl di Bari Domenico Colasanto, è stato condannato alla pena di 3 anni e 6 mesi di reclusione. Avrebbe potuto evitare, secondo i giudici di primo grado, che l’omicidio avvenisse. Per questo risponde di omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro e omissione di atti d’ufficio.
Questa volta, invece, fortunatamente le cose non sono andate così e la denuncia della vittima, è stata condivisa dalla gip di Trani, Lucia Anna Altamura, che ha disposto il carcere per il suo molestatore, con l’accusa di atti persecutori: «È fondato il timore – scrive – che possa commettere altri gravi delitti, continuando a dirigere la violenza verso il proprio prediletto bersaglio, reo ai suoi occhi unicamente di aver opposto un categorico rifiuto alla instaurazione di una relazione affettiva».
L’incubo della psicologa comincia nel 2013, quando si stava specializzando in psicoterapia e le fu affidato l’uomo, proveniente dal Centro di salute mentale dell’ospedale San Paolo di Bari. «Sin dall’inizio – scrive lei nella denuncia – ha mostrato di valicare i confini del rapporto professionale. Spesso nel corso delle sedute mi faceva domande di natura personale, tipo se fossi fidanzata e faceva apprezzamenti sul mio aspetto fisico».
Lei non si preoccupa, tutto era sotto controllo anche perché avveniva solo durante le sedute. Ma poi, a maggio 2014, lui comincia a inviarle numerosi messaggi telefonici. «messaggi che mi destabilizzavano, contenenti apprezzamenti fisici, allusioni a sfondo sessuale, inviti a incontrarlo privatamente. Ha incominciato a rapportarsi a me come se si fosse instaurata una relazione sentimentale – scrive – a pretendere la mia presenza, che rispondessi ai suoi inviti e a insultarmi, e a minacciarmi di morte quando non gli rispondevo».
Firma quindi le sue prime quattro denunce, da febbraio ad agosto 2017 e lui viene arrestato. I primi due processi a suo carico si concludono con una condanna definitiva, il terzo si chiude nel 2020 con l’assoluzione, perché “del tutto incapace di intendere e di volere”, Non era “pericoloso”, scriveva il giudice monocratico, perché da due anni inserito in un percorso riabilitativo e sottoposto a terapia farmacologica. La diagnosi: “disturbo psichiatrico con tratti psicotici e aspetti bipolari”.
Ma a settembre il percorso termina, e riprendono invece le telefonate alla sua vittima: tra il 23 e 24, numerose da un numero sconosciuto, e ancora a ottobre, decine di chiamate e un messaggio vocale. Dopo averne riconosciuto la voce, lei blocca quel numero ma grazie a un’applicazione del sistema operativo Android, lui riesce a fare due videochiamate alle quali lei non risponde. Il compagno della psicologa telefona a quel numero e risponde una ragazza che sarà poi iscritta nel registro degli indagati per favoreggiamento (interrogata dalla polizia, ha negato persino di conoscere l’uomo).
«Mi ha letteralmente terrorizzata – si legge nell’ultima denuncia, di novembre scorso – Ho temuto per la mia incolumità, mi sono di nuovo sentita in pericolo. Ora ho paura di ritrovarmi nella stessa situazione di pericolo già vissuta, e la mia paura è amplificata dalla consapevolezza della pericolosità sociale del mio persecutore, clinicamente riconosciuta».
L’uomo, infatti, nell’ultimo processo era stato definito dal consulente del tribunale “soggetto socialmente pericoloso, con facile tendenza a manipolare”. Per lo specialista, “soggetti come l’imputato, strutturano nei confronti della vittima un vero e proprio delirio di riferimento a sfondo rancoroso che spesso deborda nella rabbia, la quale in presenza di un discontrollo degli impulsi, può facilmente mutuare in una aggressione fisica con conseguenze imprevedibili”.
«Ebbene – scrive ancora la psicologa – oggi non conosco quali siano le sue effettive condizioni di salute, ma una cosa è certa: la sua ossessione nei miei confronti. Neppure i rimedi giudiziari volti a farlo desistere dal continuare a perseguitarmi hanno sortito l’effetto sperato. Lui ha costantemente tentato di controllare la mia vita, di appropriarsi della mia vita, facendo leva sul terrore che esercita su di me. In passato per intimorirmi mi ha ricordato che proviene da uno dei quartieri più malfamati di Bari, minacciandomi che sarebbe venuto a cercarmi per farmi del male. Ed è venuto, così dimostrando di mettere in pratica i suoi propositi. Oggi non intendo aspettare oltre».
E la gip che ha firmato l’arresto dell’uomo, ha condiviso quella paura: «Il timore espresso dalla vittima è ben fondato – sostiene – alla luce delle modalità di manifestazione delle vicende, nonché della gravità di quanto commesso ostinatamente. È plausibile, concreto ed effettivo il timore che, se lasciato in libertà, possa portare ad ulteriore compimento i suoi intenti tormentanti e tartassanti nei riguardi della vittima».
Per il legale dell’arrestato, l’avvocato Nico Nono D’Achille, invece, le responsabilità maggiori sono da addebitare a chi, tra le istituzioni, avrebbe dovuto sovrintendere e controllare le sue cure: «È stato abbandonato a se stesso – obietta il difensore – La legge Basaglia funziona a patto che il territorio controlli i pazienti».