C’è un momento, parlando con Pau dei Negrita, in cui capisci che per loro la musica non è mai stata solo un mestiere: è un modo di stare al mondo, con tutta la fatica e l’intensità che comporta. Il nuovo tour teatrale, «Canzoni per Anni Spietati», nasce così: non per celebrare una carriera trentennale, ma per dare voce al concept del loro ultimo lavoro, un disco che attraversa disillusione politica, rabbia civile e il bisogno ostinato di rimanere lucidi in tempi confusi. Nei prossimi giorni quel racconto diventerà carne viva su due dei palchi pugliesi: lunedì 17 novembre al Teatro Petruzzelli di Bari e il 18 novembre al Politeama di Lecce.
Pau, dopo i sold out nei club e la parentesi acustica dell’estate, ora arriva il tour teatrale. Che atmosfera porterete sul palco?
«Rispetto ai tour teatrali degli anni scorsi, che erano quasi totalmente acustici, questa volta suoneremo in elettrico. Portiamo la nostra identità classica, ma con un suono più adatto ai teatri, specialmente a quelli all’italiana. Abbiamo ripulito un po’ di “noise”, ridotto la potenza degli amplificatori e cercato un timbro più vicino alle origini del rock, agli anni Sessanta. Un suono più intelligibile, meno aggressivo: una terza via, né acustica, né tradizionalmente elettrica.
Con «Canzoni per Anni Spietati» avete interrotto un silenzio discografico di sette anni. Che cosa vi ha spinto a tornare in studio?
«Il tipo di disco che volevamo fare. Non avremmo potuto scrivere un altro album, non in termini di contenuti. Era arrivato il momento di tirare fuori un po’ di veleno, di amarezza, di delusione. Abbiamo affrontato temi legati alla situazione sociale attuale, in Italia e nel cosiddetto Occidente. Visti gli ultimi anni, ci è sembrato naturale scrivere un disco così. E il titolo parla chiaro».
Com’è nato quel titolo?
«Come sempre, lo abbiamo scelto alla fine delle registrazioni. Abbiamo riascoltato tutti i brani e ci siamo accorti che c’era un filo rosso che li attraversava. “Canzoni per Anni Spietati” sintetizzava tutto: questi anni lo sono davvero, spietati, e le nostre canzoni somigliano a un piccolo manuale di sopravvivenza».
Nei testi si percepisce anche molta rabbia. Che cosa la fa arrabbiare di più?
«Mi fa arrabbiare la cattiva gestione di ciò che continuiamo a chiamare democrazia: è diventata un contenitore vuoto. E non è solo un problema italiano, è un tratto comune all’intero Occidente. Poi c’è il ritorno dell’odore di guerra, gli investimenti sulle armi, i profitti dei produttori che guidano decisioni globali. Basta uscire di casa per vedere come stanno davvero le persone. Un decimo degli italiani è sotto la soglia di povertà, un quinto è a rischio. La politica è subordinata alla finanza. Intanto noi restiamo divisi in tifoserie destra-sinistra: è un teatrino utile solo a chi comanda».
Da qui nasce anche il brano «Noi siamo gli altri»?
«Sì. Racconta proprio questo: esiste una parte di popolazione stufa di queste divisioni da stadio. Una parte che non si riconosce in questa polarizzazione e non viene considerata. Parliamo ancora di “fascisti” e “comunisti”, quando non vedo un comunista da quarant’anni. Vedo invece un modo di governare che tende al totalitarismo. La democrazia è la cosa davvero in pericolo».
Che ruolo attribuisce ai media in questo contesto?
«Non voglio generalizzare: esistono media e media. Ma molti di quelli più in vista sono pagati o condizionati dalla politica, e puntano tutto sui titoli acchiappa-click. La logica è fare notizia, non informazione. In questi tempi manca la figura dell’intellettuale».
Si spieghi.
«Una volta era ascoltato, seguito, orientava la realtà quando tu non riuscivi a decifrarla. Oggi viene considerato un fastidio, perché dice cose scomode. Di conseguenza si esalta l’ignoranza: l’idea di essere orgogliosi di non sapere. Da padre, questa cosa mi spaventa. In passato c’erano contadini analfabeti che sapevano recitare a memoria la Divina Commedia. Oggi facciamo fatica a trovare un laureato che sappia commentarla».
È retorico chiedere alla musica un impegno su questi temi?
«Lo diventa solo quando è un’imposizione. L’artista dev’essere libero, anche se non sempre lo . Pensa a ciò che è successo a Sanremo qualche anno fa con Ghali: usò la parola “genocidio” riferendosi alla Palestina e scoppiò uno scandalo nazionale. È patetico. Poi nel mainstream attuale non troviamo testi impegnati come quelli di Guccini, Dylan o De André. Il vero problema è che molti giovani fanno musica per soldi: è la nuova religione. Noi, con questo disco, ci siamo tagliati le gambe sul piano commerciale, e lo sapevamo. E poi viviamo in un Paese diviso: basta che qualcuno percepisca un seme “di sinistra” e metà pubblico ti toglie l’ascolto per ripicca».
Ha citato Sanremo: che rapporto ha col Festival?
«Negli ultimi anni non lo guardo più. Mi sembra tutto tranne che una kermesse della musica. È un carrozzone commerciale dove la canzone è un pretesto. Si parla solo di punteggi, classifiche, polemiche. L’arte non dovrebbe prevedere gare. Noi ci siamo stati nel 2003 e nel 2019, quasi sempre in momenti di crisi. Nel 2003 portammo “Tonight”, mentre avevamo pronta “Magnolia” che uscì tre mesi dopo e fu un successo. Al Festival arrivammo nelle ultime posizioni, ma nel giro di poche settimane ci ritrovammo in vetta alle classifiche. Non portammo “Magnolia” perché – pur essendole sempre grati – non rappresentava del tutto la nostra identità».
Ma in carriera l’avrà pur dovuto accettare qualche compromesso.
«Come tutti. La differenza è decidere quanto compromesso sei disposto ad accettare. Piero Pelù mi invitò a The Voice: gli dissi di no perché il talent non fa per me. Qualche anno dopo mi chiamò X Factor per fare il giudice: andai al provino spinto dal mio manager, ma sperai di non essere scelto. Rinunciai a un bel po’ di soldi, ma non era il mio posto».
Tornate a suonare nei teatri mentre sembra che tutti vogliano suonare negli stadi. Controtendenza?
«Molti arrivano agli stadi senza avere l’esperienza per reggerli. Non hanno fatto gavetta, non hanno mai calcato neanche un palco di due metri. È l’epoca dell’apparenza».
A proposito di apparenza, che rapporto ha con i social?
«All’inizio ho cercato di capirli e usarli per ciò che hanno di positivo: permettono di essere editori di sé stessi. Ma oggi sono degenerati: influencer, intelligenza artificiale, informazioni indistinguibili, tempi d’attenzione di due secondi. Uso Instagram, ma sempre meno. Riposto soltanto ciò che riguarda la band. Quanto agli haters, ne abbiamo avuti pochi. E io ho un metodo infallibile: li banno».
Cosa cerca quando sale sul palco in questo tour?
«Abbiamo in scaletta cinque o sei brani del nuovo album: vorrei che al pubblico arrivassero appieno. E poi voglio emozione. Ma oggi l’emozione è schiava delle immagini: la gente filma tutto col telefono. Se potessi farei come Bob Dylan: telefoni lasciati all’ingresso. Vedere centinaia di schermi neri davanti a sé è devastante. Abbiamo lavorato mesi per le luci, e qualcuno le registra guardando un rettangolino. È demenza. Bisogna tornare a vivere il momento».









