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Taranto, gli “invisibili” dell’ex Ilva: da otto anni in cassa integrazione con 1.200 euro al mese

Nel braccio di ferro in corso tra sindacati metalmeccanici e governo, i primi hanno di recente giocato la carta della clausola di salvaguardia occupazionale, una postilla prevista dall’accordo del 6 settembre 2018 col ministero del Lavoro che prevede, entro il 30 settembre 2025, l'assunzione in Acciaierie d'Italia in amministrazione straordinaria, di tutti quegli operai rimasti…
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Nel braccio di ferro in corso tra sindacati metalmeccanici e governo, i primi hanno di recente giocato la carta della clausola di salvaguardia occupazionale, una postilla prevista dall’accordo del 6 settembre 2018 col ministero del Lavoro che prevede, entro il 30 settembre 2025, l’assunzione in Acciaierie d’Italia in amministrazione straordinaria, di tutti quegli operai rimasti fuori dal perimetro lavorativo quando, a cavallo tra il 2018 e il 2019, gli impianti furono ceduti al colosso francoindiano ArcelorMittal.

L’accordo, che a posteriori potrebbe definirsi fin troppo ottimistico, prevedeva il progressivo riassorbimento di circa 1600 operai che all’epoca furono messi in cassa integrazione. Dei sovrannumerari che rimasero in capo alla vecchia società decotta, Ilva in amministrazione straordinaria. Ora, dopo otto anni, arriva la lettera di diffida di Fim, Fiom e Uilm al governo, a cui si chiede di onorare gli accordi presi.

Un’attesa di otto anni

Il pensiero, in casa di Vittorio, 49 anni, sposato, con tre figli ed un mutuo sulle spalle, va a quel 29 ottobre del 2018. «Tramite portale scoprii che a distanza di 17 anni dalla mia assunzione non ero tra quelli scelti da Mittal e così da gennaio 2019 sono un cassintegrato Ilva in as», racconta. La vita per lui e per gli altri circa 1600 non è affatto facile. «Dal siderurgico percepiamo solo il 10 per cento del vecchio stipendio. Il resto ce lo dà l’Inps con la cassa integrazione. Il che vuole dire che con queste buste paga non ci viene concesso un finanziamento neanche comprare frigorifero e lavatrice. Le finanziarie non si fidano della cassa integrazione che viene rinnovata di anno in anno. Peraltro il costo della vita è aumentato e arrivare a fine mese con 1200 euro diventa sempre più difficile perché i figli crescono e hanno le loro esigenze».

Oltre il danno, la beffa

Gli operai raccontano di vivere facendo concorsi. «Chi è stato riassorbito ha avuto il tfr mentre noi no, perché non siamo stati licenziati, viviamo in un buco nero. All’inizio ci hanno fatto qualche corso per insegnarci come scrivere il curriculum e cercare lavoro online. Poi più nulla», dice che sta nella platea ex Ilva in as. «Io ero manutentore elettrico ma mi sono praticamente dimenticato il lavoro. Adesso avrei paura a mettere le mani sugli impianti», racconta un altro lavoratore. Il problema, a sentire gli operai, arriva dal lontano passato. Dopo che la magistratura ha sequestrato tutti gli impianti dell’area a caldo per disastro ambientale ed inquinamento, nel 2014 si decise di spegnere l’altoforno 5, il più grande d’Europa, che non riaprirà mai più. Da allora il declino della produzione e le perdite mensili per milioni di euro non si sono fermate. «Noi potremmo essere usati nella bonifica degli impianti, i vecchi altoforni prima o poi devono essere smantellati e si potrebbe vendere il materiale smontato. Anziché essere un costo vorremmo tornare a essere una risorsa», dice Angelo, che ha subìto la stessa sorte degli altri ex Ilva rimasti nel limbo della cassa integrazione.

Il futuro del siderurgico

Serpeggia tra i sindacalisti il timore che il bando per la cessione degli impianti finisca per favorire un nuovo assetto produttivo col personale ridotto di un quarto. «Sarebbe l’ecatombe di un sito di interesse strategico nazionale», dice Francesco Brigati della Fiom. «Il bando va ritirato e deve intervenire lo Stato per far ripartire gli impianti in sicurezza e decarbonizzare».

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