C’è un dj dietro ogni racconto musicale che abbia qualcosa da dire. E Luca De Gennaro, classe 1959, è stato tra i primi a capirlo, quando le radio libere si difendevano come oasi incontaminate e le discoteche erano posti dove costruire mondi. Ha attraversato cinquant’anni di musica da protagonista e da testimone: in console, in radio, in tv, sui giornali. Oggi, mentre l’ecosistema musicale brucia di mode, algoritmi e pubblicità mascherate, lui resta una voce elegante, fuori dal coro. L’abbiamo incontrato in occasione del Medimex.
Che cosa rappresenta questo festival per la Puglia e per l’Italia?
«Un evento come il Medimex è importantissimo in Italia. Da anni il Sud sviluppa un’attività culturale intensa, e questo festival è una delle sue punte di diamante. Ha concerti, showcase, spazi per artisti emergenti, incontri professionali: un format raro in Italia, più simile a eventi internazionali come il South by Southwest o l’Eurosonic».
Lei ha attraversato quasi tutti i ruoli dell’ecosistema musicale. Qual è il filo rosso della sua carriera?
«Il punto di partenza è che sono un disc jockey. Tutto nasce da lì. Un dj ha una missione: far ascoltare la musica agli altri. Da ragazzo non mi bastava parlarne fuori da scuola, volevo farla arrivare a più persone possibile. Le prime radio private, quasi cinquant’anni fa, e le discoteche dove mixavo i dischi sono stati il modo più diretto ed efficace per farlo. Con quella stessa mentalità ho affrontato tutto il resto: giornalismo, televisione, direzione musicale. Sempre per far passare la musica alla gente».
Radio o podcast: chi sopravviverà?
«La radio non morirà mai, anzi. I podcast – che si sono conquistati con merito uno spazio proprio – hanno dato alla radio una personalità ancora più definita: quella del “qui e ora”. La radio è diretta, ti dice che tempo fa, se c’è traffico, se è scoppiata una guerra. È espressione del momento. Anzi, mi auguro che il futuro veda un rilancio delle radio locali, che possono informare e raccontare ciò che succede proprio dove vivi».
Lei scrive di musica. Quella del critico musicale è una figura che esiste ancora?
«Ho sempre scritto, ma non mi considero come Riccardo Bertoncelli, Gino Castaldo, o come i grandi americani tipo Lester Bangs. Quello che oggi si legge in giro è più cronaca musicale che critica. Manca preparazione, vedo improvvisazione. E poi c’è il problema dei commenti: appena esprimi un’opinione arrivano valanghe di insulti, e questo frena il confronto. Un tempo un critico dava un parere e basta. Oggi se dici che un concerto non ti è piaciuto, vieni travolto dagli haters. È scoraggiante».
La critica si è trasformata in pubblicità?
«Non posso dirlo con certezza. Che ci siano figure apparentemente sopra le parti con interessi commerciali è un tema, ma non ho mai voluto esplorarlo fino in fondo».
Quanto pesa oggi l’immagine nella musica dal vivo?
«Troppo. Il mondo dei festival è diventato, in certi casi, solo moda. Ricordo quando Glastonbury, o Primavera Sound erano luoghi per veri appassionati. Oggi molti vanno solo per postare sui social. È il campionato mondiale di Instagram. E mi fa male: ho passato la vita a raccontare quanto siano belle certe manifestazioni, e ora a beneficiarne sono persone a cui non interessa nulla della musica».
Tre artisti contemporanei da ascoltare assolutamente?
«I Kerala Dust, che fanno una dance psichedelica molto interessante. Poi Djo, alias Joe Keery, che è anche attore in “Stranger Things”, ma ha grande talento musicale. E i Lemon Twigs: sono la modernità del classic pop».
Esiste qualcuno oggi che gode di troppa buona stampa?
«Secondo me il pubblico non lo freghi. Se un artista piace, è perché da qualcosa alla gente. Puoi anche pompare qualcuno per riempire uno stadio, ma se non ha i pezzi ti fai male. Gli spazi grandi non si improvvisano: te li conquisti con il repertorio».
C’è un eccesso di concerti negli stadi a scapito dei club?
«Sì, enorme. Non capisco questa ossessione per gli spazi giganti. Non è che devi arrivare subito a San Siro o ad Assago. In uno stadio non puoi fare il fighetto, non puoi sperimentare: devi avere una scaletta di successi consolidati, costruiti in anni di carriera. Possono permetterseli Jovanotti, Vasco, Max Pezzali. Non si scala una montagna partendo dalla cima».
L’IA: minaccia o alleata della creatività musicale?
«Avrà un ruolo fondamentale, perché è un’innovazione tecnologica. E le innovazioni guidano sempre la creatività. Se non avessero inventato la drum machine, non avremmo avuto la techno o la drum’n’bass. L’IA potrà fare cose che l’umano non può o non vuole fare. Come un robottino che pulisce casa. Timothy Leary diceva che nessuna rivoluzione tecnologica ha mai soppiantato la precedente. Radio, tv, computer, internet: si sono affiancati, non hanno sostituito nulla. Anche l’AI farà lo stesso».