Si è svolta oggi la prima udienza, alla Corte di Giustizia europea, del procedimento originato dall’azione inibitoria collettiva contro l’ex Ilva. In particolare si chiede la «cessazione delle attività dell’area a caldo» dell’ex Ilva, la «chiusura delle cokerie e l’interruzione dell’attività dell’area a caldo fino all’attuazione delle prescrizioni» dell’Aia e la «predisposizione di un piano industriale che preveda l’abbattimento delle emissioni di gas serra di almeno il 50%».
Una azione legale partita da 10 cittadini aderenti all’associazione Genitori Tarantini e un bambino affetto da una rara mutazione genetica a cui si sono aggiunti successivamente 136 cittadini. Era stato il Tribunale delle imprese di Milano, nel settembre 2022, a sospendere la causa sull’inibitoria trasmettendo gli atti alla Corte del Lussemburgo per porre sostanzialmente i tre quesiti concernenti l’interpretazione della normativa europea in materia di emissioni inquinanti di impianti industriali in relazione alle norme italiane.
Per la prima udienza sono intervenuti i legali dell’associazione Genitori Tarantini, Ascanio Amenduni e Maurizio Rizzo Striano, l’avvocato Filippo Colapinto del Gruppo di Intervento Giuridico, i legali della Regione Puglia (che si è costituita ad adiuvandum), Anna Bucci e Rosanna Lanza, l’avvocato della Commissione europea, l’avvocato generale dello Stato e i legali di Acciaierie d’Italia e Ilva in amministrazione straordinaria. Presente l’eurodeputata dei Verdi Europei Rosa D’Amato.
A metà dicembre si conosceranno le conclusioni dell’avvocato generale della Corte di Giustizia europea. «Sarà molto importante quello che dirà – ha commentato il legale Rizzo Striano -. Dopodiché i tempi prevedono altre 3-4 mesi per avere la sentenza. Qui tutto è andato secondo le previsioni: ogni parte ha mantenuto le proprie posizioni, soprattutto la Commissione europea ha ribadito di essere completamente d’accordo con quanto sostenuto da tribunale di Milano. Aspettiamo fiduciosi questo ennesimo capitolo».
I giudici del tribunale delle imprese avevano ravvisato alcune criticità tra le misure italiane per l’organizzazione tecnica degli impianti e gli effetti nocivi sulla salute, chiedendo alla Corte europea di verificare se ciò sia conforme alle normative Ue.