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Medimex, parla Charles Moriarty: «Vi racconto la mia amica Amy Winehouse» – L’INTERVISTA

Amy prima che diventasse Winehouse. Prima del beehive, dei Grammy, dei tabloid, e del crollo sotto i riflettori. C’è una Amy con i bigodini tra i capelli e un bicchiere di vino rosso in mano, che corre per New York sotto il temporale o ride in ascensore a Londra. La ritroviamo nelle fotografie di Charles Moriarty, l’amico che per caso diventò il fotografo della copertina di “Frank”, senza neanche saper usare davvero una macchina. In quelle immagini non c’è la diva, ma una ragazza intelligente, buffa. Normale. Ora, quelle foto arrivano in Italia per la prima volta, grazie alla mostra inaugurata ieri al MArTA alla presenza del fotografo, nell’ambito del Medimex 2025.

Ha deciso di portare queste fotografie in Italia. Cosa rappresentano per lei?

«Il ricordo della mia amica Amy, prima che uscisse “Frank”, il suo primo album. È bello condividerle. Spero davvero che il pubblico apprezzi la mostra e riesca a vedere un lato di Amy che forse non ha mai conosciuto».

Si ricorda il primo giorno che l’ha incontrata?

«Sì. Scattammo le prime fotografie, poi finimmo in uno studio dove la sentii cantare. Capì subito che aveva una voce potente. Ma nell’industria musicale non si può mai sapere dove una persona arriverà davvero. Nessuno avrebbe immaginato che, cinque anni dopo, sarebbe diventata famosa in tutto il mondo».

Quelle immagini non sembrano foto “promozionali”.

«Quando mi chiese di scattarle delle foto, era seduta nel mio salotto. Le chiesi cosa volesse, e la sua unica richiesta fu: autenticità. Voleva che la gente la vedesse com’era, che le immagini rispecchiassero i suoi testi. Tutto ciò che era stato fatto prima le sembrava falso, troppo da catena di montaggio».

Quindi niente stylist o produzione?

«Esatto. Amy si truccava da sola. A Londra scattammo un solo rullo di pellicola, e da lì uscì la copertina dell’album. Un mese dopo continuammo a New York: solo i suoi vestiti, il suo trucco, i suoi capelli. Io ero da solo con la mia macchina fotografica, senza alcuna formazione. Nessuno dei due sapeva davvero cosa stesse facendo, ma ci siamo divertiti».

Spesso i giornali hanno avuto l’ultima parola sulla sua vita. Queste foto sono in qualche modo un tentativo di proteggerla?

«Ho pubblicato il mio libro fotografico poco dopo il documentario di Asif Kapadia. Quando lo vidi, capii che non volevo che quella fosse l’ultima parola su Amy. Non volevo che l’immagine duratura fosse quella di lei portata via in un sacco per cadaveri. Fu Asif a dirmi: “Devi fare qualcosa con queste foto”. Sentii che era mio dovere condividere con i fan la persona che ricordavo. Credo che prima della fama fosse ancora più se stessa. È lei che volevo raccontare».

C’è un episodio legato a Amy che ricorda con particolare affetto?

«Ce ne sono tanti, ma abbiamo scattato solo in due occasioni: una notte a Londra, e 24 ore a New York. E New York fu un disastro. Era luglio, prima delle app meteo, e passavamo la giornata a cercare location. Finimmo da Patricia Field, perché Amy amava “Sex and the City”, e passammo del tempo con delle drag queen. Tornati a casa, pronti per la “golden hour”, arrivò un temporale con tuoni e fulmini durato sei ore. Ci siamo seduti ad aspettare: ci sono foto di Amy coi bigodini nei capelli. Alla fine dissi: “Devo iniziare a scattare qualcosa”. Così mangiammo cinese e bevemmo vino rosso. Il giorno dopo le dissi: “Dobbiamo tirare fuori qualcosa”, e fu allora che si fece il suo celebre chignon alto».

Cosa dovrebbero scoprire le nuove generazioni sulla pop star attraverso queste foto?

«Che era una ragazza normale del North London. Una come tante, ma in più aveva una voce incredibile».

C’è uno scatto in particolare tra quelli in mostra a cui è legato?

«Questo qui – indica la foto “Grimbsy St”, London, 2003 – in cui si gira e mi guarda con intensità: lì era Amy Winehouse, la performer, non Amy la ragazza. In altri scatti è davvero lei, con tutte le sue incertezze. Sta cercando di capire chi è, e si intravedono pezzi della persona che sarebbe diventata sul palco. Ma ancora non poteva saperlo».

E una canzone che le ricorda più di tutte Amy?

«“Back to Black”: quando l’ho ascoltata per la prima volta una parte di me si è rotta».

Cosa le manca di più di lei da quando non c’è più?

«Mi manca la mia amica gentile, generosa, intelligente e divertente. Aveva una risata fantastica».

Possiamo dire sia stato l’incontro con Winehouse a spingerla verso la fotografia?

«Sì, in un certo senso è colpa sua. È davvero grazie a lei se ho iniziato a fare questo lavoro».

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