Il conflitto in Ucraina lo ha costretto a mollare tutto e partire per mettersi in salvo. Un viaggio lungo più di 3.000 chilometri in automobile: dall’inferno di Kiev, assediata dalle bombe di Putin, alla rassicurante tranquillità di Martina Franca, la terra natia lasciata nella speranza di un futuro migliore all’estero. Un percorso inverso obbligato tra esplosioni, il terribile suono dell’allarme antiaereo, militari e civili armati fino ai denti, molotov, checkpoint disseminati ovunque e una costante sensazione di pericolo fino al confine moldavo. Paolo Chiafele, mastro salumaio pugliese, è arrivato in città sano e salvo assieme alla sua famiglia e può finalmente godersi un caffè al bar. Frammenti di una normalità ritrovata dopo la fuga dall’orrore della guerra. Verso l’Europa e poi giù a perdifiato fino allo stivale: la corsa disperata è terminata lunedì sera intorno alle 10,30 quando la Valle d’Itria si è stagliata all’orizzonte.
Paolo Chiafele, quando è iniziato il viaggio di ritorno?
«Siamo partiti circa sette giorni fa. Eravamo molto preoccupati: abbiamo lasciato una situazione impossibile. Nei primi giorni di combattimenti i bancomat e i supermercati sono stati presi d’assalto, poi la gente terrorizzata dalle sirene di allerta e dagli scoppi ha iniziato a cercare un riparo ovunque: sottoterra, nelle stazioni della metropolitana. I russi colpivano in più punti: abbiamo vissuto momenti che non augurerei nemmeno al mio peggior nemico. Era impossibile restare».
L’evacuazione dei cittadini italiani era organizzata dalla rappresentanza diplomatica italiana?
«Ci siamo radunati nella sede dell’ambasciata. La mia vettura faceva parte di un convoglio. Ci siamo messi subito in marcia: l’obiettivo era allontanarsi nel più breve tempo possibile dalla metropoli attaccata pesantemente dai russi».
Ricorda quelle fasi concitate?
«Siamo usciti da Kiev abbastanza rapidamente ma non senza rischi. Nei pressi di una località situata appena fuori la capitale abbiamo visto un missile volare a pochi metri dalle nostre teste. Eravamo pietrificati, ma abbiamo proseguito. Dopo circa dieci chilometri siamo stati fermati dai militari ucraini. A quel punto ho udito distintamente diversi colpi di arma da fuoco. Poco dopo nei pressi di un passaggio a livello, siamo stati fermati ancora una volta: ci hanno indicato un posto sicuro dove passare la notte. Era un rifugio, ci siamo accampati e abbiamo provato a riposare prima di riprendere il cammino».
E dopo cosa è successo?
«Abbiamo puntato verso Odessa e poi ci siamo diretti Moldavia, che abbiamo raggiunto attraverso una strada interna. Al confine abbiamo fatto tre giorni di fila, cinque ore solo per passare la frontiera. Superati i controlli ci siamo fermati per riprendere fiato e abbiamo realizzato di non essere più in pericolo. Eravamo in salvo. Finalmente».
La Russia di Putin è passata dalle minacce ai fatti lanciando un’operazione militare su larga scala. Non solo le Repubbliche russofone di Donetsk e Lungansk ma l’intera Ucraina. Se lo aspettava?
«No, per niente. Anche gli ucraini erano convinti che il conflitto sarebbe rimasto confinato ai territori del Donbass dove si spara dal 2014. Mai avremmo immaginato di assistere a certe scene, ma ci sbagliavamo. E appena tre giorni dopo l’invasione russa ho iniziato a temere seriamente il peggio».
I suoi amici hanno lasciato il Paese?
«Quasi tutti. Solo una persona ha deciso di restare lì per difendere la libertà. Gli altri sono andati via».
Cosa farà adesso?
«Mi riposerò e riorganizzerò le idee. La mia vita e il mio lavoro sono lì: il laboratorio, gli appartamenti, tutto. Tornerò quando questa brutta storia sarà finita. Spero prestissimo. Nel frattempo ho messo a disposizione della popolazione tutto il cibo che avevo in magazzino. Ce la faremo. Forza Ucraina».