L’Italia non avrebbe condotto un’inchiesta efficace sulla morte di un operaio dell’Ilva, deceduto nel 2010 a causa di un tumore ai polmoni che, secondo i familiari, era dovuto all’esposizione a sostanze tossiche sul luogo di lavoro.
Per questo la Corte europea dei diritti umani (Cedu) ha condannato l’Italia accogliendo il ricorso presentato dalla moglie e dal figlio dell’operaio in cui si sosteneva che lo Stato ha violato il diritto alla vita, sotto il profilo procedurale, per aver archiviato la causa che avevano intentato per omicidio colposo senza prendere in considerazione la perizia che dimostrava la correlazione tra la malattia dell’uomo e la sua esposizione a sostanze nocive sul luogo di lavoro.
Inoltre, i familiari dell’operaio, hanno sostenuto che nell’interrompere l’indagine, le autorità avevano scelto di non esaminare le prove che, a loro parere, avrebbero permesso di identificare le persone responsabili dell’attuazione delle misure di sicurezza nello stabilimento.
Nella sentenza la Cedu evidenzia in particolare che, tenuto conto della giurisprudenza nazionale pertinente e del fatto che non era stata esclusa fin dall’inizio un’origine professionale della patologia di cui era morto l’operaio, le autorità avrebbero potuto ordinare ulteriori indagini per accertare l’eventuale esistenza di un nesso di causalità tra l’esposizione a sostanze nocive e il decesso, al fine di individuare i responsabili di eventuali violazioni delle misure di sicurezza.
«Ne consegue che i tribunali nazionali non hanno fatto sforzi sufficienti per accertare la verità e che la decisione di archiviare l’indagine non è stata adeguatamente motivata», scrive la Cedu, concludendo che «quindi l’inchiesta non è stata efficace».