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Ex Ilva, i terreni del siderurgico grandi quanto una città

Nel confronto in corso sul futuro del siderurgico, che si è concluso l'altra sera con un'intesa tra governo ed enti locali sulla piena decarbonizzazione, senza però tempi certi e sopratutto fondi (secondo gli esperti il passaggio ai forni elettrici costa dai 4 agli 11 miliardi), affidati ad un investitore che, latitante negli ultimi due anni,…
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Nel confronto in corso sul futuro del siderurgico, che si è concluso l’altra sera con un’intesa tra governo ed enti locali sulla piena decarbonizzazione, senza però tempi certi e sopratutto fondi (secondo gli esperti il passaggio ai forni elettrici costa dai 4 agli 11 miliardi), affidati ad un investitore che, latitante negli ultimi due anni, dovrebbe palesarsi nel giro di pochi giorni feriali, nessuno finora si è preoccupato di una cosa semplice: rimpicciolire la fabbrica. La cessione di spazi alla città implicherebbe un nuovo disegno dell’urbanistica e in linea teorica, a fronte di incalcolabili costi di bonifica, libererebbe enormi spazi in favore di nuovi potenziali appetiti edilizi in una città finora schiacciata dall’eterna scelta tra salute e lavoro, stretta nella morsa di una fabbrica che se negli anni Sessanta ha contribuito a scalare le classifiche del benessere in un Sud depresso, via via con gli anni ha presentato un conto incredibilmente alto da pagare in termini ambientali e di impatto sulla salute.

Le dimensioni contano

«Size does matter», dicono gli inglesi. Lo stabilimento di Taranto inaugurato nel 1964, ingrandito poi col raddoppio degli anni Settanta si estende a cavallo tra i Comuni di Taranto e Statte ed è grande quanto una città: 15 milioni di metri quadrati. Per farsi un’idea, il centro storico di Taranto ha una superficie di 2,5 milioni. La fabbrica gode poi di quasi un milione di metri quadrati di aree demaniali in concessione, dove sono situati i moli e alcune aree circostanti. Il sito è dotato di 200 chilometri di binari per il trasporto ferroviario, 50 di strade e 90 di nastri trasportatori per la movimentazione delle materie prime, stoccate da pochi anni in due giganteschi contenitori, con cui sono stati ricoperti i parchi minerari, grandi quanto 56 campi da calcio. Prima delle coperture, le gigantesche colline di poveri ferrose e materie prime, alte decine di metri, quando c’era vento spargevano polverino sull’intera città. Bastano questi numeri a capire che si tratta di uno dei più grandi complessi siderurgici d’Europa, pensato peraltro in era di gigantismo industriale. L’ex Ilva, al massimo della sua potenza produttiva è arrivata a dieci milioni di tonnellate di acciaio all’anno.

Il futuro

«Non si comprende perché la fabbrica debba avere un’estensione così straordinariamente grande se deve produrre di meno. Eppure non si è mai posto il problema di rimpicciolirla, di ridisegnarne il layout, in modo da recuperare e bonificare aree (l’attuale area a caldo, per esempio) allontanando il più possibile la produzione dalle persone», scrive sul suo blog (tonioattino.it) il giornalista Tonio Attino. Perché, ci si chiede, costruire i forni elettrici a ridosso dell’abitato del quartiere Tamburi, il quartiere più inquinato d’Europa, quando già nel 2022 Franco Bernabè, l’uomo scelto dal premier Mario Draghi per risolvere la crisi dello stabilimento, aveva individuato un’area verso il mare, più lontano dall’abitato. La discussione sul recupero di aree contigue alla città si apre di fatto ora, prima non se n’è mai discusso e in ogni caso c’è da fare i conti con mostruosi costi di bonifica, in un sito dove si è fatta industria pesante per 60 anni. Sono note le inchieste degli anni passati sulle centraline contaminate da apirolio sepolte in veri e propri strati di archeologia industriale, probabilmente ancora oggi nascosti sotto terra.

I dubbi

Ed anche la decarbonizzazione, secondo l’ambientalista, Alessandro Marescotti, nasconde pericolose insidie. «Secondo la proposta del governo di graduale passaggio dagli altoforni a carbone ai forni elettrici, almeno fino al 2031 le prestazioni ambientali con un volume produttivo di sole due milioni di tonnellate all’anno di acciaio risultano perfino peggiori delle attuali. Rischiamo di avere un inquinamento doppio di polveri, azoto e tre volte superiore per zolfo, una volta e mezza per benzene e benzoapirene», sostiene l’ambientalista.

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