La storia dell’esodo giuliano dalmata passa anche da Taranto e vive nelle vicende di famiglia di Giovanni Nardin, nato a Taranto da padre esule polesano.
«Sono un frutto dell’esodo» racconta Nardin, oggi coordinatore per la regione Puglia dell’Unione degli istriani, un’organizzazione fondata a Trieste da esuli alla fine del 1954.
Nardin è figlio di un impiegato dell’arsenale di Pola, costretto a lasciare la sua terra natia a seguito del massacro delle Foibe. Suo padre, così come tanti altri istriani, fu separato dalla sua famiglia e fu mandato in un campo profughi. È arrivato così a Taranto, dove di campi ce n’erano tre, dislocati tra San Vito e il quartiere Tamburi.
Qui ha iniziato a lavorare presso l’Arsenale Militare, considerata la sua consolidata esperienza acquisita nell’arsenale di Pola e, sempre qui a Taranto ha conosciuto sua moglie, dalla cui unione è poi nato suo figlio Giovanni. Non è quindi un caso se proprio all’Arsenale Militare di Taranto, precisamente nella sala “a tracciare”, in questi giorni è possibile visitare la mostra fotografica “La via luminosa sull’Adriatico Orientale”.
Si tratta di una raccolta di materiale fotografico allestito su pannelli esplicativi che raccontano la storia dei fari austro ungarici.
La mostra organizzata dall’Unione degli Istriani in collaborazione con l’Università popolare di Trieste, nasce da un lavoro di ricerca realizzato in una tesi di laurea di Massimiliano Blocher e Paola Cochelli. È stata inaugurata il 13 dicembre alla presenza delle autorità militari e sarà possibile visitarla fino al 17 gennaio.
Le immagini raccontano l’origine, lo scopo e la storia dei fari costruiti tra Trieste e la costa istriana e la loro importanza militare.
«Ecco perché Taranto – spiega Nardin – al di là delle mie origini, la città di Taranto si rivela adatta proprio per la sua storia militare, per la presenza della Marina che conosce bene l’importanza dei fari».
Queste possenti strutture luminose sono state realizzate in territori che sono stati Austria, Italia e ora divisi tra Slovenia e Croazia. L’unico rimasto in Italia è il faro di Trieste. Ogni faro racconta una strategia, una utilità nella navigazione, anni e anni di lavoro per la loro costruzione. Per alcuni sono stati impiegati addirittura 40 anni; altri invece, distrutti dalle mareggiate o dagli incendi, sono stati ricostruiti fino a tre volte, su scogli lontani sei ore di navigazione dalla terraferma. «Molti di questi fari si trovano oggi in terre che un tempo ci appartenevano – ha detto Giovanni Nardin – per questo come Unione degli Istriani abbiamo deciso di ospitare questa mostra, perché parla della nostra terra natia. Per noi raccontare e mostrarli è importante, perché quando ti tolgono tutto, non ti resta che il racconto. Trasmettere queste conoscenze ti fa restare vivo. Mio padre – continua – è stato fortunato. Il suo lavoro in arsenale gli ha permesso di raggiungere Taranto, quindi è come se avesse avuto un trasferimento. Molti altri di noi invece, sono stati costretti a reinventarsi e ora sono sparsi per il mondo».