Nuova fumata nera e nuovo aggiornamento, il quarto in due settimane, all’assemblea dei soci di Acciaierie d’Italia, la società mista pubblico-privata che gestisce in affitto gli stabilimento dell’ex Ilva. Ancora una seduta aggiornata, a martedì, perché ArcelorMittal, il colosso francoindiano della siderurgia, che è socio di maggioranza col 60 per cento delle azioni e Invitalia, socio pubblico di minoranza (poco al di sotto del 40 per cento), non hanno ancora trovato un accordo sulla ricapitalizzazione della società per rilanciare il siderurgico.
Se da un lato, col decreto Aiuti, il governo ha messo sul tavolo un miliardo di euro per la riconversione degli impianti, dall’altro ha chiesto ai soci, secondo fonti accreditate, la ricapitalizzazione di un miliardo. Mittal, secondo quanto trapelato, non sarebbe disponibile a versare in cassa oltre 600 milioni di euro, giacché sostiene di aver già investito 1,8 miliardi nel 2017. E non è escluso che il governo stia lavorando in anticipo all’operazione che era prevista per metà 2024, cioè l’aumento di capitale per far diventare lo Stato socio di maggioranza e poter controllare il consiglio di amministrazione.
La trattativa è particolarmente complessa e probabilmente necessiterà ancora tempo prima di essere risolta. Nelle ultime ore il ministro delle Imprese, Adolfo Urso, ha lanciato l’allarme sulla capacità produttiva e lo stato delle casse della società mista, pubblico-privata. «La situazione attuale è di forte difficoltà finanziaria e di grave situazione produttiva», ha detto l’altro giorno il ministro. «L’amministrazione attuale ha un peso debitorio particolarmente significativo, diverse centinaia di milioni di euro. Nel contempo la produzione dell’acciaio si è progressivamente ridotta, appena tre milioni di tonnellate nell’anno in corso, a fronte di un obiettivo che avrebbe dovuto essere del doppio. Siamo allarmati, dobbiamo fermare – ha aggiunto Urso – il declino inarrestabile. Bisogna essere chiari, con questi numeri non si può andare avanti, il destino sarebbe segnato». L’azienda è alle prese con gravi problemi di liquidità e per questo a fine novembre il management ha messo alla porta 145 aziende dell’indotto e con loro più di duemila lavoratori, ora a rischio cassa integrazione o peggio licenziamento. I sindacati hanno chiesto al governo di prendere in mano la guida dello stabilimento, alcune sigle hanno proposto di escludere del tutto il socio privato, statalizzando la fabbrica.
Ipotesi questa, tuttavia, già scartata dal ministro Urso, che ha detto «lo Stato non può essere un bancomat, non può essere un bancomat. Noi non la nazionalizzeremo, riteniamo necessario creare subito quel piano industriale con le parti in causa che consenta di guardare al futuro». Intanto resta difficile la situazione delle aziende dell’indotto e dell’appalto con commesse sospese e pagamenti al rallentatore. Alcune stanno avendo difficoltà a pagare gli stipendi di novembre, dicembre e le tredicesime.