Da un lato potenziali acquirenti in visita, la promessa della costruzione di due forni elettrici e nuove risorse finanziarie, dall’altro impianti quasi fermi e poco personale al lavoro. È questa la duplice fotografia del siderurgico ex Ilva, in bilico tra un futuro ancora da disegnare e un presente denso di difficoltà a due mesi dall’arrivo dei commissari.
Ieri l’incontro tra governo centrale e sindacati metalmeccanici per fare il punto sullo stato dell’azienda, finita decotta e messa in amministrazione straordinaria, affidata ai commissari governativi. Proprio uno dei tre, Giovanni Fiori, ieri ha annunciato l’avvio nel 2025 della costruzione nel sito di Taranto (il più grande del gruppo n.d.r.) di due forni elettrici, che prenderanno il posto degli altiforni 1 e 4.
Un progetto che richiederà un investimento da circa un miliardo di euro. Quelli elettrici dovrebbero entrare in funzione nel secondo semestre 2027. A Palazzo Chigi il ministro dell’Industria Adolfo Urso ha annunciato che già nella seconda metà di maggio sono programmate visite in azienda di società che hanno manifestato interesse per l’acquisto dell’ex Ilva. Al momento la situazione degli impianti è piuttosto complicata.
Marcia a ritmo molto ridotto solo l’altoforno 4, che sarà mantenuto fino al 2030. I numeri 1 e 4 sono fermi in manutenzione e non si sa se e quando riprenderanno a funzionare. Altoforno 5, il più grande d’Europa, è fermo da marzo del 2015 e attualmente versa in condizione di degrado, servirebbero non meno di 2 o 3 anni per rimetterlo in funzione, secondo quello che riferiscono i sindacati degli operai.
Nel corso dell’incontro a Palazzo Chigi Urso ha anche annunciato una nuova iniezione di liquidità. Nei prossimi giorni il governo dovrebbe sbloccare risorse per circa 150 milioni di euro per garantire la continuità aziendale. Fondi che andrebbero ad aggiungersi ad altri 150 milioni già stanziati e al prestito ponte da 320 milioni che ancora attende il semaforo verde dall’Europa.
Insomma dai piani esposti dal governo ai sindacati metalmeccanici emerge l’obiettivo di produrre sei milioni di tonnellate di acciaio nel 2026 con i forni attuali di vecchia generazione a carbone. Piano accolto con freddezza dai sindacati che non condividono il percorso individuato dai commissari di Acciaierie d’Italia e dall’esecutivo per provare a rilanciare il più grande polo siderurgico italiano, da una decina di anni alle prese con conti in rosso, massicci ricorso alla cassa integrazione e capacità produttiva ai minimi storici.
I sindacati temono un ridimensionamento della forza lavoro e chiedono al governo di riportare le lancette all’accordo sottoscritto nel 2018. «Non condividiamo nè il metodo nè la sostanza. Non abbiamo alcuna volontà di negoziare un ulteriore accordo. Quello del 2018 definisce la difesa occupazionale di migliaia di lavoratori oggi in amministrazione straordinaria», dice il segretario della Uilm Rocco Palombella.
Per il segretario della Fiom Michele De Palma «il punto fondamentale che abbiamo esposto ai commissari e al governo è che le persone devono tornare a lavorare. Le risorse sono poche e non bastano, le nozze con i fichi secchi non si fanno». Per il segretario della Fim Cisl Ferdinando Uliano «senza il prestito dell’Europa l’azienda non è in grado di continuare. Non si è parlato di esuberi ma di mantenimento dell’occupazione attuale». Troppe incognite anche per Usb. «Bisogna soprattutto parlare dei lavoratori e del modo in cui si affronta il piano di garanzia e messa in sicurezza di tutti, anche dei 1700 lavoratori di Ilva in As oggi lasciati fuori dalla discussione. Stesso discorso per i lavoratori dell’appalto su cui anche oggi abbiamo chiesto conto al governo».