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Ballare fino all’oblio, il ricordo di una sala parigina lungo la Marna

Chi ha visto Le Bal di Ettore Scola non faticherà a riconoscere, nelle guinguettes francesi lungo la Marna, lo stesso teatro di ombre e di corpi dove si consuma, con tenacia e ingenuità, il desiderio umano di contatto. Le Château du Lac, la sala da ballo prescelta, sorge in un villaggio ottocentesco, appena fuori Parigi.…
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Chi ha visto Le Bal di Ettore Scola non faticherà a riconoscere, nelle guinguettes francesi lungo la Marna, lo stesso teatro di ombre e di corpi dove si consuma, con tenacia e ingenuità, il desiderio umano di contatto.

Le Château du Lac, la sala da ballo prescelta, sorge in un villaggio ottocentesco, appena fuori Parigi. Un tempo luogo di ritrovo borghese, ora scenario sopravvissuto al tempo come una conchiglia rimasta intatta dopo la ritirata del mare. Nel grande salone: tavolini in ferro, sedie da bistrot, un globo di vetro che pende dal soffitto come un astro modesto, parquet lucidissimo, luci tenui. Sul palco: una voce femminile, un sassofono, un contrabbasso e il accordéon, organetto dalle viscere metalliche, che canta con voce dissonante, come un uccello notturno ferito. La folla è eterogenea, ma le donne sono in maggioranza. Si presentano in abiti scelti con cura, composti per grazia o per abitudine. Alcune siedono sole, le mani raccolte in grembo, gli occhi fissi in un punto imprecisato. Sanno che il primo passo spetta all’uomo.

Così vuole il cerimoniale, e da secoli si rispetta. Intorno alla pista si aggirano i dragueurs, cacciatori che non fanno mistero della loro funzione: giacca scura, scarpe lucide, andatura felpata, sguardo obliquo e insistente. Attendono che la musica rallenti, che l’occasione diventi propizia. Poi avanzano, non invadenti ma inesorabili, verso la donna che, con uno scarto impercettibile del volto, ha confermato il proprio consenso.

Si danza in silenzio. Il corpo si fa docile, il respiro si adegua a un altro ritmo. I lenti si susseguono come ondate regolari; il contatto si fa più stretto, la distanza tra i corpi scompare. La pista diventa un campo magnetico dove attrazione e rituale si sovrappongono. Osservo i tanghi. Vi è in essi qualcosa di ieratico e meccanico insieme. Le braccia tese, le mani che si sfiorano appena o si stringono con forza, gli sguardi rivolti verso l’alto, non verso il partner ma verso una regione superiore del tempo, come se si cercasse, in quel movimento ripetuto, un varco nell’abitudine.

Nel corso delle ore, gli abbracci si fanno più stretti, i volti più lucidi. I segni della fatica affiorano: camicie madide, mani umide, capelli scomposti. Ma nessuno si ritrae: il bisogno di sentirsi vivi prevale su ogni pudore. Nelle toilettes, le donne si rinfrescano. Si lavano le ascelle con una naturalezza quasi sacra, come le bagnanti nei quadri pompeiani. Un tratto di rossetto, un colpo di pettine, un gesto complice: e sono pronte a ritornare là dove si balla, là dove si resiste al tempo con la sola forza di un passo. Un boogie risveglia le energie sopite: il parquet geme sotto le scarpe, scricchiola come una nave sotto le onde. Il desiderio risale, e con esso il bisogno di equilibrio. Serviranno altri lenti per calmarlo, per riportarlo a uno stato d’apparente quiete. Poi, all’improvviso, la voce di Elton John. Candle in the Wind. La canzone che ha accompagnato il funerale della principessa di un impero in rovina.

Mi dico: adesso si fermeranno. Non si può stringersi così, con il volto imperlato di sudore, sulle note che hanno celebrato la scomparsa di un’icona. Ma nessuno si ferma. Per chi danza da ore, oltrepassato il punto di ritorno, una melodia vale l’altra. Neppure Goodbye, England’s rose…, neppure l’eco funebre della canzone riesce a strapparli a quella realtà parallela dove, per qualche istante, si è ancora vivi, desiderati, presenti.

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