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La fuga dalla Sierra Leone, attraverso la Libia, per non diventare “bambino soldato”: la storia di Kallon – VIDEO

Nel giorno in cui le autorità italiane hanno assegnato il porto di Bari come scalo sicuro per lo sbarco (giovedì) di 85 migranti salvati nel Mediterraneo dalla nave Geo Barents, Yayah Kallon è diventato testimone di una storia toccante e allo stesso tempo commovente. L’attaccante esterno del Bari, nel corso di una lunga intervista al…

Nel giorno in cui le autorità italiane hanno assegnato il porto di Bari come scalo sicuro per lo sbarco (giovedì) di 85 migranti salvati nel Mediterraneo dalla nave Geo Barents, Yayah Kallon è diventato testimone di una storia toccante e allo stesso tempo commovente.

L’attaccante esterno del Bari, nel corso di una lunga intervista al canale YouTube della società biancorossa, ha raccontato il suo viaggio da incubo per fuggire dalla guerra in Sierra Leone, suo Paese di origine, e approdare in Europa, alla ricerca di una nuova vita.

Era il 17 febbraio 2016 quando, all’età di 14 anni, Kallon è sbarcato a Lampedusa dopo una traversata prima via terra e poi via mare, durata nove mesi. «Nella mia vita ho fatto di tutto: il muratore, ho lavato le case, il meccanico; a volte venivamo pagati, altre no. Dormivamo nei cantieri, nelle auto o nei pullman, dove capitava. Sono stati i miei genitori a convincermi a partire. È stata dura, ma so con certezza che se fossi tornato indietro il mio destino sarebbe stato quello di diventare un bambino soldato».

Kallon, con la voce rotta dall’emozione e gli occhi quasi in lacrime, ha rievocato i mesi del suo lungo viaggio. «In Libia la situazione era molto difficile. Ho visto bambini armati che sparavano alla gente. In tanti non ce l’hanno fatta. Alcuni genitori dicevano che i propri figli fossero arrivati in Europa, ma la verità è che erano morti».

La narrazione del 22enne africano si è fatta ancora più drammatica riportando alla mente i momenti del suo passaggio nel deserto. «Mentre lo attraversavo ho visto ossa umane, cadaveri di uomini e donne, i corpi senza vita dei bambini. Eravamo in 24 su un pick-up, faceva caldo di giorno e freddissimo di notte. All’arrivo in Libia avevo le gambe paralizzate. Ci ho messo due giorni a riprendermi. Io sono stato picchiato, ma non ho subìto nulla rispetto ad altri. Credo in Dio e so che è stato lui a salvarmi. Ogni tappa del viaggio era rischiosa. Ricordo la traversata via mare a bordo di un gommone, che imbarcava acqua. Con le mani cercavamo di buttarla fuori. In tanti non sono mai arrivati a destinazione».

Fortunatamente Kallon è sopravvissuto e nel centro di prima accoglienza di Lampedusa ha avuto l’opportunità di iniziare a poter coltivare la sua grande passione per il calcio: «C’era un grande campo, dove dormivamo e giocavamo a pallone, 3 contro 3 o 4 contro 4. Poi sono stato trasferito a Scicli, lì ci hanno fatto fare dei tornei. Ho sempre inseguito questa passione per il calcio. La grande opportunità è capitata proprio nel momento in cui avevo deciso di tornare in Sierra Leone». Adesso il sogno di Kallon è rivedere i suoi genitori: «Sono la mia forza prima di ogni partita, non vedo l’ora di poterli riabbracciare».

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