La recente proposta della Commissione Europea di eliminare la pesca a strascico nelle aree marine protette entro il 2030 ha scatenato un’ondata di proteste tra i pescatori italiani ma come stanno realmente le cose? Partiamo, quindi, dall’inizio, cercando di analizzare il contesto della proposta formulata, per dovere di precisione, nella “Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato Economico e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni sul Piano d’Azione dell’Ue: Protezione e restauro degli ecosistemi marini per una pesca sostenibile e resiliente”.
L’obiettivo dichiarato della Commissione è ridurre l’impatto ambientale della pesca a strascico. Tale pratica, infatti, secondo l’Ue, pur essendo efficiente, può causare danni significativi al fondale marino. La comunicazione evidenzia che la pesca a strascico ha causato una perturbazione fisica al 79% del fondale costiero, con zone particolarmente pescate su cui tale tecnica viene utilizzata oltre 10 volte l’anno. Queste pratiche, secondo la Commissione, causano la distruzione di habitat marini essenziali per la biodiversità e per la regolazione del clima.
È sulla base di queste premesse che si intende sviluppare una serie di strumenti per proteggere e ripristinare il fondale marino.
Vale la pena, però, sottolineare che la legislazione dell’Ue impone già la protezione e il ripristino del fondale marino. In base alla normativa ambientale, infatti, gli stati membri sono tenuti a mettere in atto misure di salvaguardia, con l’obiettivo di assicurare un ‘buono stato ambientale’ delle acque dell’Unione Europea. Inoltre, sono chiamati ad adottare provvedimenti utili a contribuire a instaurare o preservare uno “stato di conservazione favorevole” per determinati habitat del fondale marino.
La normativa, attualmente, ad esempio, vieta la pesca a strascico mobile in zone costiere specifiche quali, ad esempio, nelle acque più profonde di 1.000 metri. Nell’Atlantico, invece, tale pratica è proibita oltre gli 800 metri di profondità. Vi è, inoltre, un’area estesa 16.419 km², rappresentante ecosistemi marini vulnerabili, in cui il divieto è assoluto.
L’intenzione che la Commissione ha riportato nella Comunicazione menzionata, dunque, è quella di monitorare attentamente i progressi derivanti dalle raccomandazioni congiunte all’interno dei gruppi regionali degli Stati membri e, contemporaneamente, di incoraggiare lo sviluppo e l’implementazione di soluzioni innovative che possano attenuare l’impatto delle attività di pesca a strascico. Tra gli obiettivi dichiarati, infatti, c’è quello di promuovere l’innovazione, l’adozione di metodi di pesca meno invasivi e dannosi per l’ambiente, tramite investimenti in formazione e attrezzature. La transizione verso metodi di pesca più sostenibili, anche secondo la Commissione, deve essere gestita con attenzione per minimizzare l’impatto socio-economico. La proposta potrebbe, però, in ogni caso richiedere un cambiamento significativo nelle pratiche di pesca correnti e potrebbe avere implicazioni per i diritti e i doveri dei pescatori italiani ed è quindi essenziale gestire questa eventuale transizione in modo equo, tenendo in considerazione le esigenze e le preoccupazioni di tutti i soggetti coinvolti. Persino la Commissione riconosce l’importanza di questo passaggio nel documento diramato.
Elio E. Palumbieri è avvocato – Studio legale SAFEGreen