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Liste d’attesa in Puglia, i sindacati a Decaro: «Non basta tenere le strutture aperte fino alle 23. Serve un piano» – L’INTERVISTA

«A un problema complesso, come quello dello liste d’attesa nella sanità, non si può rispondere solo tenendo aperte le strutture fino alle 23 e nei week end. L’aumento delle prestazioni sarebbe uno spreco di denaro pubblico se non affiancato da un intervento molto più articolato». Sabato scorso, il neoeletto presidente della Regione, Antonio Decaro, ad…
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«A un problema complesso, come quello dello liste d’attesa nella sanità, non si può rispondere solo tenendo aperte le strutture fino alle 23 e nei week end. L’aumento delle prestazioni sarebbe uno spreco di denaro pubblico se non affiancato da un intervento molto più articolato».

Sabato scorso, il neoeletto presidente della Regione, Antonio Decaro, ad Atreju – la festa della destra a Roma – ha annunciato il prolungamento dell’apertura delle strutture fino alle 23 per riassorbire le liste d’attesa e subito pronto è arrivato il controcanto. Antonio Mazzarella, segretario pugliese FP Cgil Medici e Dirigenti sanitari, commenta così le ipotesi al vaglio della Regione.

Lei è stato tra i componenti della task force sulle liste d’attesa guidata da Aristide Carella che, 20 anni fa, nell’era Vendola, cercò soluzioni utili. Il piano però si arenò. Per quali motivi?

«Avemmo una cinquantina di incontri. Chiedemmo al personale di lavorare su base volontaria al di fuori del proprio orario. Ci scontrammo contro una serie di interessi privati e con costi elevati per gli straordinari, tanto da finire nel mirino della Corte dei Conti».

Ha senso riprovare? E quali ostacoli ora ci sarebbero da superare?

«La scarsità di risorse e personale, la pessima organizzazione delle Asl, la gestione clientelare di alcuni direttori generali, il mancato decollo della medicina territoriale. Con le prestazioni aggiuntive puoi andare avanti una settimana, un mese, poi il problema si ripropone. Prendiamo per esempio le agende delle prestazioni: vengono sospese o chiuse per ferie e congressi. Il dirottamento del paziente verso il proprio studio, se non verso altri studi privati, è la prassi. Si lavora in intramoenia e perfino in extramoenia. E’ più redditizio. Invece servirebbe una presa in carico totale del paziente».

Cioè?

«Il Piano nazionale di gestione della liste d’attesa prevede già da anni che, quando gli specialisti ospedalieri visitano il paziente per priva volta e si rendono conto di una patologia che ha bisogno di un lungo trattamento, devono poter fare prescrizioni di esami e di farmaci senza passare dal medico di famiglia. Un’altra legge, la n. 124 del 1998, dice che, nel momento in cui i tempi di attesa si allungano troppo, la Asl ha l’obbligo di chiamare un professionista anche da altra Asl e fargli fare la visita».

E perchè non vengono attuate?

«Per interessi lobbistici in contrasto tra loro. Ma anche per mancata conoscenza del sistema. Pensi all’appropriatezza prescrittiva: oggi un paziente che dice di avere un forte dolore lombare può avere un codice di urgenza più elevato rispetto a quello di un malato di tumore. Eppure da dieci anni la Regione ha assegnato un codice preciso a ogni prestazione».

E il ruolo dei CUP?

«Bisogna metterli in rete. Devono contenere tutte le agende di tutti i soggetti erogatori di prestazioni, pubblici e privati. Poi bisognerebbe dire ai privati “io ho bisogno di questo e in questa quantità” non far scegliere a loro. Oggi, molte strutture raggiungono il tetto di spesa annuale già ad agosto, poi lavorano solo a pagamento».

C’è anche il problema della medicina territoriale da sistemare.

«Oggi il 90% delle prestazioni vengono erogate negli ospedali. Le Case della Salute sarebbero fondamentali. Invece, a causa dei ritardi, si rischiano di perdere tanti soldi. Questo sarebbe veramente grave».

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