Storytelling corner: no, ora una telefonata non ci allunga più la vita

«Una telefonata allunga la vita», diceva una vecchia pubblicità (date un’occhiata alla foto a destra e ricorderete). Forse è stato questo tipo di messaggio a convincerci, col tempo, che la vita era meglio accorciarla in “slot”, parola inglese che utilizziamo per dire che abbiamo 15, 30 o 60 minuti per il nostro interlocutore. Il più delle volte in videoconferenza. Gli americani, che a dare nomi sono sempre più bravi di noi, parlano di “No call generation”. E non intendono, nello specifico, una generazione in particolare – sebbene vedremo che per i più giovani quella di evitare il telefono è ormai una consuetudine – ma di una tendenza: non si chiama più.

Ci sono varie argomentazioni, alcune anche molto valide, dietro il timore della telefonata. Prima fra tutti, l’effetto sorpresa. Una volta, lo squillo del telefono poteva annunciare qualunque cosa, ricordo ancora quanto mi battesse il cuore quando chiamavo l’amica di scuola a casa e mi rispondeva il padre. Ed ero costretto a presentarmi, schiarendo bene la voce per non sembrare timido, impacciato o peggio ancora maleducato: «Buonasera, sono Cristiano, un compagno di classe di Francesca. Se c’è, potrebbe passarmela, per favore?». In momenti di particolare tensione, aggiungevo un gentilmente o un avverbio di troppo. Ci vuole un attimo a passare dall’educazione alla riverenza. Però era una bella palestra di confronto, anche perché spesso la motivazione razionale che ci diamo oggi, quando decidiamo di optare per un messaggio asincrono in luogo di una telefonata – “meglio non disturbare a quest’ora”, “meglio lasciargli il tempo di cercare una risposta attendibile” – è la giustificazione con cui copriamo quella emotiva. Non ce la sentiamo noi, questa è la verità. Figurarsi un ragazzo o una ragazza che sa di poter risolvere tutto con un cuoricino su Instagram.
La paura di disturbare, di essere respinti, di vedersi sminuiti da una risposta fredda o poco gentile gioca a sfavore dell’opzione telefonica. E poi ci sono l’ansia di misurarsi con un altro punto di vista, il disagio di ascoltare anche quando non si va d’accordo, la fatica di negoziare, di sentirsi dire di no. Siamo passati da un’epoca – che oggi sembra lontanissima – in cui acquistavamo suonerie a una in cui nessuno le usa più. I nostri smartphone sanno già chi c’è dall’altra parte, il fattore sorpresa diventa quasi sempre fattore seccatura, abbiamo perso la capacità di immaginare delle storie. La No call generation è anche una conseguenza di troppe interruzioni, telefonate senza senso, call center che hanno invaso la nostra privacy, social media “always on”. Non dire questo sarebbe scorretto.
Eliminando le telefonate, nel lavoro e nelle relazioni quotidiane, perdiamo sfumature profonde di significato. Ci siamo abituati a reazioni che vanno oltre il testo, chiedendoci: «In quanto tempo mi risponderà?», «Ha usato le faccine?», «Ha visualizzato e non ha risposto, cosa vorrà dire?». Ci poniamo queste domande perché istintivamente sappiamo che la comunicazione è un insieme di parole solo in parte. Ci perdiamo a rileggere i testi mille volte per capire cosa c’è dietro un avverbio o un aggettivo, convinti che grazie ai messaggi perderemo meno tempo, quando invece è ancora vero che una telefonata di cinque minuti, spesso, ci toglie ogni dubbio e ci risparmia scambi lunghissimi via chat o email. Nelle relazioni sta diventando un problema: i più giovani si nascondono dietro una chat, non hanno il coraggio di chiamare senza prima avvisare, anche in assenza di un motivo. Ci si chiede «dimmi?» piuttosto che «come stai?», pensando che, se si telefona, ci dev’essere un motivo davvero urgente e non il bisogno di scambiare due chiacchiere. Nemmeno FaceTime o le videochiamate possono sostituire la bellezza di una telefonata. La necessità di raccontare a voce, di descrivere, di ascoltare una voce. Di accettare i silenzi. «Se telefonando – diceva una canzone – io potessi dirti addio, ti chiamerei». Ma non diciamo addio al telefono, ne abbiamo ancora bisogno.

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