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Taranto, Michele Bramo: «Ho aiutato Amir, scappato dall’Isis. Ora è mio fratello»

L’ha accolto (era in uno Sprar, un centro d’accoglienza), l’ha portato a casa, l’ha aiutato ed oggi Amir è un cittadino integrato. Un incontro a Taranto che ha cambiato le loro vite. Michele Bramo, tarantino classe 1979, responsabile marketing in un azienda, impegnato in attività culturali e iniziative nel sociale con l’associazione “Il Luogo dei Possibili”, viaggiatore assiduo ogni anno verso mete internazionali in tutti i continenti, incline per esperienza familiare al volontariato. Amir, curdo iracheno nato a Sulaymaniyya al confine con l’Iran nel 1990, arrivato a Taranto da Copenaghen come rifugiato politico richiedente asilo, viaggiatore per necessità, scappato da Mosul dopo l’occupazione dell’Isis lasciando lì tutta la famiglia. Oggi, tarantino e attivo nell’associazionismo, lavora per la questura di Brindisi all’ufficio Immigrazione. Ha portato alla luce la loro storia la terza edizione del premio “Giorgio Di Ponzio, diffusori di bellezza” delle associazioni Giustizia per Taranto e Giorgioforever. Un riconoscimento annuale per cittadini che nel silenzio compiono azioni virtuose per la comunità. Una doppia premiazione per loro, un doppio messaggio di inclusione.

Michele, come è avvenuto il tuo incontro con Amir?
«Ci siamo conosciuti nel 2015 ad un corso di arabo che frequentavamo entrambi. Io incuriosito dallo studio di una nuova lingua, lui per migliorare il suo italiano, che oggi parla perfettamente insieme ad altre quattro lingue. Al tempo era ospite di uno Sprar, centro del sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, da solo. È stato l’inizio di una profonda, sincera e fraterna amicizia».
Oggi dichiari di aver “un fratello in più”, come è andata la sua integrazione a Taranto?
«Abbiamo condiviso le difficoltà dell’inizio, soprattutto linguistiche, ma come sappiamo sguardi e gesti bastano a capirsi, se ci si vuole capire. Lo aiutavo nell’italiano e l’ho assistito anche in altre faccende in cui aveva bisogno di una mano, come l’apertura di un conto corrente bancario. Un giorno nell’estate 2015 l’ho coinvolto nei miei itinerari cittadini, l’ho invitato a uscire con i tarantini che sono diventati anche i suoi amici. Amir ci ha insegnato tanto».
È stata la tua prima esperienza di accoglienza?
«Sento di dire che la solidarietà e l’accoglienza sono nel dna della mia famiglia, partendo dai miei nonni che sono stati un esempio di cultura e generosità, abbiamo una forma mentis delineata alla prossimità, agli altri, all’aiuto nonché al mondo dell’associazionismo del terzo settore. È avvenuto naturalmente di portare Amir in famiglia».
Si potrebbe pensare che sia avvento uno scontro di civiltà?
«Direi piuttosto e senza retorica, un incontro di civiltà. Anche la mia famiglia voleva conoscerlo e così una domenica lo hanno invitato a pranzo. Mia mamma gli ha preparato tutto con i dovuti accorgimenti, niente carne di maiale come da tradizione mussulmana. Amir si è presentato con un suo dolce tipico, il muhallabia. Da quel giorno è diventato il sesto componente del nucleo e un altro figlio e fratello, ha pranzato con noi minimo una volta a settimana e le festività anche se cristiane le ha trascorse con noi e i nostri parenti».
Amir a quel tempo però non aveva ancor i documenti per restare in Italia.
«Sì, in realtà era solo in attesa di ricevere i documenti perché il suo progetto era tornare a Copenaghen dove aveva vissuto per sei mesi. Il permesso di soggiorno è arrivato a ottobre 2015. Così l’ho aiutato per il viaggio, gli ho regalato una valigia grande e organizzato una festa a sorpresa in modo che potesse salutare le persone che aveva conosciuto. Abbiamo continuato a sentirci tutti i giorni esercitandoci con la lingua italiana, finché Amir mi ha manifestato la sua voglia di tornare a Taranto perché non riusciva a regolarizzare la sua posizione lavorativa e soprattutto perché gli mancava tutto il carico umano di quei suoi mesi di permanenza. Ho mandato il suo curriculum e fissato un colloquio che si è concluso con un’offerta di impiego come mediatore culturale. A quel punto ho cercato comunque di fargli comprendere che le condizioni retributive dell’Italia non sono quelle danesi. Mi disse che tornare nella città in cui si sentiva a casa non aveva nessun valore economico».
Cosa dire alla famiglie che potrebbero accogliere i profughi ucraini?
«Consiglio di avvicinarsi in punta di piedi e di provare ad abbattere le barriere culturali, religiose e morali che, pur se inconsapevolmente, manteniamo. Nel pratico possono esserci delle difficoltà ma l’incontro contribuisce ad aprire dei lucchetti interculturali».
Lo rifaresti di metterti a disposizione con altre persone?
«Assolutamente sì, l’ho fatto e lo faccio. Il premio è stato inaspettato. Vorrei che questa e altre storie valgano innanzitutto come una riflessione. Nessun incontro è casuale, è un pensiero che rende la mia vita piena di significato».

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