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Sempre più precarie. Meno lavoro, meno equità: l’analisi Susanna Camusso

A cosa serve crescere se non c’è equità? Dopo l’ufficializzazione dei contenuti del Bes curato da Istat, è di sicuro questo uno degli interrogativi più urgenti su cui riflettere. La ripresa cominciata nel 2021 non riduce i divari tra uomini e donne, e queste ultime continuano ad essere penalizzate nel lavoro. Per Susanna Camusso, responsabile…
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A cosa serve crescere se non c’è equità? Dopo l’ufficializzazione dei contenuti del Bes curato da Istat, è di sicuro questo uno degli interrogativi più urgenti su cui riflettere. La ripresa cominciata nel 2021 non riduce i divari tra uomini e donne, e queste ultime continuano ad essere penalizzate nel lavoro. Per Susanna Camusso, responsabile Politiche di Genere della Cgil nazionale, «la prima osservazione è che si è parlato tanto, ma, in Italia, le donne hanno pagato un prezzo ben più alto che negli altri paesi europei». Il rapporto di Istat ci dice anche che le donne hanno recuperato un poco di più degli uomini in termini di occupazione, ma sappiamo che è un occupazione a termine, a part time involontario, spesso a bassa retribuzione, un’occupazione tornata “invisibile”.

Qual è stato l’errore?
L’errore delle tante parole a cui non corrispondono provvedimenti è data dal non aver imparato la lezione del covid, dal cullarsi nell’idea del ritorno alla normalità come obiettivo risolutore. Quella diseguaglianza che ha fatto pagare un prezzo insopportabile alle donne era già nella realtà, la pandemia l’ha resa evidente e forse ampliata, ma non l’ha creata. Quanti si sono accorti con la pandemia che le donne svolgono lavori essenziali? Prima erano invisibili, perché è visibile non ciò che cura ma solo ciò che genera grandi profitti. Valutiamo non il benessere, ma la ricchezza, non la cura ma i consumi, poi arriva la pandemia e ci dimostra che senza la cura svanisce tutto il resto. Non seguono i fatti concreti, le politiche necessarie perché si continua a dare il messaggio che ci sarà parità quando le donne diventeranno come gli uomini, faranno i lavori degli uomini. I quali uomini, però, stanno ben lontani dal condividere, dal praticare la cura, anche dal determinare le infrastrutture sociali necessarie. In verità quella maschile patriarcale è una visione conservatrice, anzi fin di rimpianto, mentre la pandemia come la crisi climatica ci parlano della fragilità di noi esseri umani e del pianeta e per questo del bisogno di cambiare paradigma economico oltre che culturale.
La parità salariale è una delle azioni strategiche da perseguire per annullare il divario retributivo uomo-donna, eppure anche in Puglia dove esiste una legge dal 6 ottobre 2021 molte cose non vanno, perché?
Sulla parità salariale, bisogna registrare che i divari si allargano per due ragioni, una diciamo “classica” la discriminazione che congiunge segregazione nel mercato del lavoro e percorsi di carriera più difficili, che si traduce anche in politiche salariali dannose per le donne. Sul permanere della discriminazione pesa moltissimo il valore che si da al tempo, meglio alla disponibilità di tempo: concepita come un merito ed una necessità imprescindibile, una misura quantitativa, mai qualitativa che rende impari ed impossibile il confronto finché il lavoro di cura sarà tutto sulle spalle delle donne. Lo dimostra la stessa differenza su occupazione e retribuzioni tra donne con e senza figli. In questa trappola del tempo disponibile ed infinito ci cascano tutti, basta pensare al dibattito sulla disconnessione o al proliferare dei premi di presenza. Affrontare il tema della parità salariale però richiede il coraggio di rompere un tabù e siamo così alla seconda ragione, la trasparenza delle retribuzioni. Proposto, per es. nella direttiva europea in discussione. Bisogna cioè poter conoscere le effettive retribuzioni, non le medie, non quelle contrattuali che sono paritarie, e conoscerle per tutti e per tutte, anche per i livelli gerarchici.
Si scoprirebbe così che la dinamica salariale è “impazzita” ed ha perso il collegamento con il lavoro e l’eguaglianza dei lavori come principio di parità retributiva, ma sta costruendo una piramide la cui punta è sempre più lontana, se in un’azienda tra il primo e l’ultimo livello c’è una distanza fino a 1 a 2000, con una media che orma è intorno a 1 a 500, è evidente che qualità, responsabilità, autonomia, competenze non sono più i riferimenti delle politiche salariali salvo che per la parte contrattata e contrattabile, ma lo sono profitti ed azionisti; e di nuovo i lavori essenziali quelli che ci garantiscono salute e sopravvivenza, che salvaguardano l’ambiente, che fanno crescere le prossime generazioni vanno in fondo alla classifica.
Se di lavoro dobbiamo parlare – specialmente al Sud – non possiamo non parlare di precariato e di salari mortificanti. Ma la politica e le istituzioni avranno mai il coraggio di intervenire?
Mi verrebbe da dire purtroppo sono intervenuti e con politiche sbagliate. L’Italia investe ogni anno 21 miliardi (dati INPS) in forme varie di decontribuzioni e fiscalizzazioni, bonus e quant’altro, a loro dire per favorire l’occupazione femminile e giovanile in particolare al Sud. Non solo mancano vincoli e controlli, non solo si spende per posti di lavoro che c’erano o ci sarebbero stati comunque, ma uno degli effetti ormai ampiamente studiati questo ha favorito ulteriori marginalizzazioni del lavoro femminile, lavori finalizzati agli incentivi non al futuro che durano il tempo degli incentivi. Invece abbiamo bisogno di mettere fine all’ubriacatura da deregolamentazione, alla narrazione del precariato come necessità, alla filosofia dei lavoretti che toglie dignità al lavoro. Ci vorrebbe una seria riforna del mercato del lavoro che, anche simbolicamente, dovrebbe mettere al primo punto l’abolizione del part time involontario trappola nella quale vivono più di due milioni di lavoratrici. Una riforma che tolga dall’orizzonte la dissociazione tra lavoro e vita dignitosa.
Contrastare precarietà e lavoro povero è essenziale, ma significa avere il coraggio di interrompere il racconto che gli imprenditori sono gli eroi e se le cose non vanno bene è sempre colpa di qualcun altro, metter fine a quella narrazione che ho sentito fare da chi ha ereditato le sue fortune e predica che bisogna affamare i giovani perché lavorino o che vuole togliere le politiche di sostegno alla povertà perché cosi si possono prefigurare salari indecenti. Se governo e istituzioni rinunciano ad indicare gli obiettivi di politica dell’occupazione dietro la magica frase “il lavoro lo creano le imprese” difficilmente avremo una politica economica ed industriale che determini buona occupazione, redistribuzione della ricchezza ed anche maggior equilibrio territoriale.
E’ tempo che la politica e quindi i governi recuperino partecipazione e capacità di confronto, ridiano senso al riformare la necessità dello stato sociale come politica di sviluppo, la cura del territorio e della cultura come motori di sviluppo, l’innovazione e la digitalizzazione come motore di innovazione e non di nuovo sfruttamento. Ci sono i soggetti individuali e collettive che hanno elaborato, progettato, proposto, bisogna ritrovare i luoghi della discussione pubblica, della progettazione, delle riforme appunto.
Infine il PNRR e il futuro delle donne. Sarà poi tutto realizzabile? O, quel che è peggio, sarà tutto vero?
Ho già detto che il PNRR che dovrebbe determinare l’Italia del futuro, nomina il lavoro ben poche volte, che non considera la riforma del mercato del lavoro tra le riforme abilitanti.
La stessa importante affermazione sulla trasversalità delle politiche di genere, giovanili e territoriali è ancora tutta da misurare. Una proposta importante come la clausola di condizionalità per l’occupazione giovanile e femminile aggiuntiva derivante dagli appalti dei bandi del PNRR è tutta da monitorare perché sia effettiva e non usi la scappatoia dell’impossibilità Alcuni dati negativi ci sono già penso ai bandi deserti per gli asili nidi e al modo in cui si sono commentati, invece Diu ragionare sulle cause in particolare dell’assenza di politiche ordinarie di bilancio che diano certezza di funzionamento dopo aver costruito gli asili e le difficoltà con cui devono fare i conti le amministrazioni locali, depauperate di competenze e personale dal blocco del tra over e dalle restrizioni ai loro bilanci.
Tanta parte dell’attivazione del PNRR è legata alle amministrazioni regionali e locali, così come i fondi di coesione territoriale, attuarle richiede un’amministrazione pubblica in salute e per averla c’è una risposta che tuttora manca un piano straordinario di assunzioni pubbliche, che ridia autonomia alle amministrazioni, che rende gestibili i servizi pubblici a partire da sanità e istruzione (0-6 incluso).
Ai soliti detrattori del lavoro pubblico vorrei ricordare che siamo il paese con il più basso rapporto tra dipendenti pubblici e popolazione.
Un piano straordinario che non solo risponderebbe ad un bisogno di occupazione in particolare delle giovani donne, che sono nel mezzogiorno e non solo le più svantaggiate, ma sarebbe una chiara indicazione di come si investe sulla qualità sociale del paese essenziale per contrastare le diseguaglianze. Se non si contrastano le diseguaglianze non si propone lo sviluppo del paese come ci ricordava il Presidente Mattarella nel discorso di insediamento dopo la sua rielezione.

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