L’ok della Corte Costituzionale alla legge pugliese sul salario minimo apre ora il problema dello sblocco dello stanziamento. In attesa del pronunciamento della Consulta, infatti, il Consiglio regionale aveva stanziato 800 mila euro nell’ultimo bilancio prima del voto, ma le somme sono rimaste nel cassetto. Adesso, però, vanno liquidate ai beneficiari, così come assicurato l’altro giorno dalla presidente del Consiglio regionale, Loredana Capone. Tutto, però, è rimesso nelle mani degli uffici che potrebbero avviare la pratica in attesa dell’insediamento del nuovo governo regionale. In realtà, la storia delle paghe da fame era una storia che nessuno voleva vedere. O meglio: tutti la vedevano, ma facevano finta di nulla.
Oggi, dopo il via libera della Consulta, la legge pugliese sul salario minimo viene celebrata come una bandiera. Ma prima di diventare un «modello nazionale», è stata un imbarazzo quotidiano, consumato nei corridoi del potere regionale, tra saluti frettolosi e sguardi abbassati. Perché il paradosso era tutto interno alla macchina pubblica. I lavoratori che guadagnavano 3 euro e 60 centesimi l’ora – cioè 400 o 500 euro al mese, 600 per chi faceva lo straordinario – non erano invisibili fantasmi del mercato. Erano portieri, addetti alla vigilanza, facchini che ogni giorno aprivano le porte e presidiavano gli ingressi della Regione Puglia. Mentre a Roma si discuteva di salario minimo come di un tema astratto, loro erano lì, con famiglie da mantenere e stipendi da soglia di sopravvivenza.
La crepa s’è aperta nel maggio 2022, quando il consigliere regionale del Pd, Donato Metallo, poi scomparso prematuramente due anni dopo, decide di trasformare quelle storie in una mozione politica. Non una battaglia ideologica, ma un atto di denuncia: chiedere alla giunta di sollecitare il Governo su una paga dignitosa. Un primo segnale, rimasto però sospeso. Nel 2024 arriva una seconda mozione, ma la svolta vera si materializza solo il 5 novembre, quando il capogruppo di «Per la Puglia», Antonio Tutolo, deposita la proposta di legge. Il percorso, però, è tutt’altro che lineare. La maggioranza tentenna, appare sfilacciata, spesso distratta nelle sedute. L’opposizione osserva. Tutolo alza i toni, denuncia l’indifferenza generale, incalza Aula e colleghi. Alla fine, quasi contro pronostico, la legge passa all’unanimità. Un voto che chiude una fase politica, ma ne apre un’altra molto più delicata: quella dell’attuazione.
Per mesi tutto resta fermo, sospeso in attesa del giudizio della Corte costituzionale. Il timore che la norma potesse essere travolta dal ricorso del Governo era concreto. Il ricorso, infatti, punta dritto al cuore della legge: secondo la Presidenza del Consiglio, la norma invaderebbe competenze statali, violerebbe la libera concorrenza e l’autonomia della contrattazione collettiva. Ma per la Consulta è un «errore di prospettiva». La legge non impone un salario minimo generalizzato sul territorio pugliese: si applica solo agli appalti della Regione e dei suoi enti strumentali. Un perimetro circoscritto, ma politicamente dirompente.
La sostanza è chiara: nelle gare bandite da Regione, aziende sanitarie, ospedali, Sanitaservice e società partecipate, il contratto collettivo applicato dovrà prevedere inderogabilmente una base di 9 euro l’ora. Anche se l’azienda invoca un altro contratto, quella soglia resta. Alla Regione il compito di vigilare. Così una vicenda nata dal basso, da una cinquantina di lavoratori sottopagati, diventa un precedente nazionale. Oggi in molti rivendicano quella vittoria. Ma la verità è che, prima di salire sul carro del vincitore, in Puglia si è dovuto fare i conti con uno specchio scomodo, piazzato proprio all’ingresso del Consiglio regionale.