Ci ha creduto, è rimasto nella sua Puglia e oggi, a 26 anni, sfida con la Startup che dirige i colossi in un campo, quello della realtà aumentata, su cui c’è ancora tanto da inventare. E non è detto che l’ultima parola la diranno le multinazionali.
Giovanni Liso, realtà aumentata e metaverso. Possono davvero rivoluzionare il nostro modo di vivere?
«Il metaverso può essere “usato” con due approcci diversi: come un modo di vivere la realtà oppure come pre-esperienza di qualcosa che andremo a vivere successivamente. Se vogliamo, è un nuovo strumento di comunicazione. Non sempre si utilizza per sostituire il mondo reale. Molte aziende lo usano, al contrario, per fare sperimentare all’utente delle “demo” di esperienze che potranno poi vivere. Per i più scettici, il metaverso è uno strumento che accompagna la realtà, non la sostituisce».
Ha studiato in Puglia, al Politecnico di Bari. Poi l’idea della startup. Come è iniziato tutto?
«Tutto è iniziato quando in un bar/sala giochi, a Matera, ho provato per la prima volta l’Htc Vive, un visore molto potente che per essere utilizzato però necessita di un computer prestante e uno spazio dedicato, almeno una piccola stanza».
Poi cosa è successo?
«L’anno dopo tornai per far giocare un gruppo di amici, ma aveva chiuso perché i costi superavano i ricavi. Pensai che sarebbe stato più semplice far vivere alle persone una esperienza simile se, al posto di tutta l’attrezzatura, ci fosse stata un’app sul telefono».
Quando ha capito che era proprio questo l’ambito in cui investire le sue energie?
«Poco dopo che iniziai a sviluppare il progetto. Nonostante molti device erano già stati prodotti come Oculus, Microsoft hololens ed altri, Zuckerberg cominciò a parlare di Metaverso e, con qualche piccola modifica al progetto iniziale, mi allineai alla definizione di metaverso che stava nascendo. Era agli albori, correva il 2020, ma capii subito che sarebbe stato protagonista degli anni a venire».
In quanti siete a lavorare a questo progetto?
«Siamo tre persone, due sviluppatori e un modellatore 3d. Il bando “Resto al sud” ci ha aiutati molto, finanziandoci in parte a fondo perduto, per l’acquisto di attrezzature e licenze software. Abbiamo una sede fisica proprio nel mio paese, a Rutigliano, in cui creiamo i joystick e sviluppiamo le app e i software».
Da poco ha avviato, in convenzione con una scuola media, un progetto educativo. In che modo la realtà aumentata può favorire l’apprendimento?
«Sulla falsa riga di “Esplorando il corpo umano”, dove sei ridotto a dimensioni molto piccole e hai la possibilità di esplorare il microcosmo, anche noi abbiamo proposto alla scuola, che ha accettato con entusiasmo, di far vivere una esperienza immersiva in una cellula. Con l’app e il visore puoi girare al suo interno, guardando in grande gli organuli cellulari e le relative spiegazioni. Vi sono infatti dei punti interrogativi che, avvicinandosi, espongono una chiara spiegazione dell’organulo. Cosi facendo, ho un’idea molto chiara di dove è posizionato, come è composto e qual è la sua funzione. Si concretizza molto la visione di un qualcosa che sui libri può essere un po’ più astratto».
Il digital divide è un grande limite allo sviluppo del Mezzogiorno. Può esserlo anche per lo sviluppo e la commercializzazione di queste nuove tecnologie?
«È un grosso problema, soprattutto per lo sviluppo di prodotti all’avanguardia che qui trovano un mercato difficile. C’è una difficoltà nell’accettare l’innovazione, vige molto il concetto di “abbiamo sempre fatto così”. Stiamo lavorando però proprio per allineare le imprese al 4.0. Siamo una software house che sviluppa una vasta gamma di soluzioni, dalle app per cellulari alle piattaforme web, mantenendo un focus di ricerca e sviluppo su Vr/Ar (Virtual Reality, Augmentend Reality, ndr)».
Qual è il prossimo obiettivo che vi siete posti?
«Produrre una killer application in ambito gaming. Un gioco che ti invogli a prendere il visore e a giocare in queste nuove modalità. Il vantaggio di questa tecnologia è che è molto low cost. Un visore può costare dai 10 ai 30-40 euro per i modelli più avanzati con le cuffie. La vera protagonista rimane l’app sul cellulare».
C’è spazio ancora per inventare qualcosa di nuovo senza correre il rischio di essere fagocitati dai grandi gruppi, soprattutto statunitensi?
«La cosa bella della ricerca è che il campo è illimitato. Le grandi società e i grandi gruppi si muovono bene sulle linee che intraprendono ma non cosi velocemente su quelle nuove, motivo per cui bisogna essere veloci ad andare per primi sul mercato. Il successo di un’impresa è molto anche nel suo know-how. Non nascondo che ci sono tanti player molto più grandi di noi che mirano a risolvere il nostro stesso problema, in modi diversi ma con l’obiettivo comune. L’esperienza con la scuola, però, mi ha dato uno sprint morale quando hanno scelto il nostro prodotto invece del classico Oculus».
Le capita di pentirsi di essere rimasto in al Sud?
«No, mai. Penso che al Nord sarebbe stato più semplice, ma se dovessimo fare tutti la stessa scelta cosa rimarrebbe? Credo che qui ci siano delle buone possibilità, bisogna solo lavorare un po’ di più per raggiungerle, ma sapevo che non sarebbe stato facile».
Cosa manca alla sua terra, alla Puglia, per fare il definitivo salto di qualità?
«Il coraggio. Senza ombra di dubbio. Pochi sanno che dietro “l’abbiamo sempre fatto cosi” c’è tanto da guadagnare, con poco sforzo e con l’ausilio di strumenti e tecnologie di cui probabilmente molti non sanno neanche l’esistenza. Ricordiamo che la Puglia è una delle regioni più belle del mondo e con un po’ di innovazione in più sarebbe qualcosa di straordinario».