Pino Pisicchio, politico, giornalista, saggista e accademico italiano, esponente della corrente morotea della vecchia Dc, riflette a voce alta sul documento dei vescovi pugliesi che invita al voto.
«L’anno scorso, in concomitanza con la settimana sociale dei cattolici a Trieste, che segnò una piccola svolta – pochissimo registrata dai media – nel rapporto tra Chiesa e impegno “politico” dei fedeli, circolò un sondaggio che registrava una verità incontrovertibile già avvertita con il metodo “nasometrico”».
E cioè quale?
«Secondo l’indagine demoscopica, il 50% dei cattolici praticanti non andrebbe più a votare. Il che corrisponderebbe all’incirca a non meno di cinque milioni di italiani. Il terzo partito, dopo Fratelli d’Italia e Pd».
Una diserzione?
«Sì. Le gerarchie ecclesiastiche, la CEI di Zuppi e di Savino in prima fila, avvertendo questa diserzione alle urne non solo come un vulnus alla pienezza della dimensione civile dei cattolici, ma anche come una incompiutezza dell’essere, come credenti, impegnati a costruire il bene nella “città dell’uomo”, si sono sempre mossi con grande chiarezza sul versante del dovere civile dei credenti a non fuggire dalla politica. Dunque non sorprende il monito che giunge oggi dai Vescovi, coerente con la postura che dallo scorso anno ha assunto la CEI biasimando il disimpegno politico. Molto lontana da un disimpegno “ieratico” che ha caratterizzato da diversi decenni, a far data dalla scomparsa di Paolo VI, la Chiesa, orientata a partire da Wojtyla, ad una pastorale globalista».
Di fronte a tutto questo, la politica come ha risposto?
«In verità sorprende l’assenza di un analogo incitamento da parte della politica politicante. Sembra quasi che faccia piacere la riduzione della platea elettorale a minoranza degli aventi diritto al voto: siamo ormai, soprattutto alle amministrative, a meno della metà degli elettori, intorno al 40% (nella Regione Lazio nel 2023 al 37%): a fare la sommatoria dei voti di preferenza dei candidati i votanti combaciano. Insomma, è diventata una faccenda di galoppìni e organizzazioni strutturate, tutto ad andar bene. E chi vince non esprime la maggioranza degli elettori, ma solo una buona minoranza (dal 20 al 30% del totale). Tutto regolare, per carità dal punto di vista della regolarità: lo sarebbe anche se a votare andassero soltanto i candidati, se è per questo. Solo che così si avvilisce la democrazia partecipata».
Altrove è già così da tempo.
«Vero. Abbiamo paesi, America in testa, ma non solo, che per decenni sono stati intorno a queste basse soglie di partecipazione. Solo che oggi gli altri vedono la partecipazione salire (a cominciare proprio dall’America), mentre noi, che storicamente siamo stati i più assidui del mondo democratico nel rito dell’urna, diventiamo fanalini di coda».
La spiegazione?
«Ho scritto un libro di recente per l’editore Rubettino per raccontare i pericoli di un conflitto perenne tra destra e sinistra senza una “terra di mezzo” che impedisca il crash tre due antagonisti. Ma la terra di mezzo non c’è e i suoi abitanti non vanno più a votare».