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Pochi medici di base in Puglia, l’allarme del presidente dell’Ordine: «Più formazione e meno burocrazia»

«In Puglia abbiamo formato nel tempo più di 120 medici di base l’anno, ma anche noi, anche se non in maniera drammatica come la Lombardia, iniziamo a risentire della carenza. La proporzione è di un medico ogni 1250 abitanti e bisogna tenere in conto il sopraggiungere della gobba pensionistica. Le zone che stanno per rimanere…
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«In Puglia abbiamo formato nel tempo più di 120 medici di base l’anno, ma anche noi, anche se non in maniera drammatica come la Lombardia, iniziamo a risentire della carenza. La proporzione è di un medico ogni 1250 abitanti e bisogna tenere in conto il sopraggiungere della gobba pensionistica. Le zone che stanno per rimanere scoperte sono sicuramente quelle di periferia, come il Subappenino dauno, nel Foggiano, e i paesi in provincia di Bari. Il fenomeno è solo all’inizio, ma piuttosto allarmante». Il presidente della Federazione Nazionale dell’Ordine dei Medici e Omceo Bari, Filippo Anelli, non nasconde la preoccupazione per la situazione dei medici di famiglia. Un allarme che viaggia su scala nazionale, e che inizia a far tremare qualche polso anche nel tacco di Puglia. Tanto da spingere i rappresentanti di categoria a sedersi ieri al tavolo dell’assessore alla Sanità Rocco Palese per tracciare un quadro delle carenze e studiare un piano per prevenire la desertificazione del territorio dai medici di medicina generale.

Presidente, cosa propone per arginare il fenomeno?
«Aumentare il numero di medici da formare con il percorso dei tre anni. Se cresce la platea dei medici da utilizzare e la loro immediata disponibilità, avremo più medici di famiglia, ma anche più personale per il 118 e le guardie mediche. Poi c’è un tema più generale.
Sarebbe?
«Quello in prospettiva di equiparare la formazione alla medicina generale a una vera specializzazione medica parametrata su crediti formativi universitari. Ne stiamo ragionando con il ministero, con cui abbiamo già un’interlocuzione molto forte.
Che errore è stato commesso finora?
«L’aver decretato la fine di un rapporto di lavoro fortemente legato all’atto di fiducia con il cittadino, per trasformare la figura del medico di base in un burocrate del distretto. Questo passaggio apre una seria prospettiva alla sanità privata. Oggi se si cerca un medico che ti viene a visitare durante la notte ci si rivolge ad una delle tante società private che offre servizi “scopiazzando” il lavoro della medicina generale. Se i medici diventano burocrati è chiaro che la comunità si organizza in maniera diversa».
Cosa ha contribuito a lasciare tutto questo margine ai privati?
«Agli inizi degli anni duemila le prime convenzioni avevano introdotto la presenza di infermieri e di collaboratori di studio per ogni medico. Questo avrebbe condotto a una gestione di equipe della medicina generale e dell’assistenza primaria. Oggi viviamo una situazione ancora diversa: il nostro sistema riconosce 31 differenti professioni sanitarie presenti negli ospedali, ma non sul territorio. Integrare queste figure anche all’interno della medicina di prossimità sarebbe un modo per difendere la sanità pubblica. I medici di base non solo dovrebbero avere infermieri e personale amministrativo, ma delle vere e proprie squadre di lavoro».
Che ruolo dovranno giocare regioni e governo in futuro?
«Le Regioni hanno puntato tutto sulle strutture ospedaliere senza potenziare l’attività territoriale. Se continuiamo così la gente spenderà sempre di più di tasca sua, sottraendo risorse al sistema sanitario nazionale che rischia di scoppiare. La scelta del governo di puntare sul Pnrr per cambiare tac e ammodernare gli ospedali è giustissima. Ma non riforma la Sanità. La Sanità si riforma se si punta sui professionisti. L’unico vero punto di svolta è mettere i medici nelle condizioni di lavorare con le altre professioni».

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