È ancora scossa ed emozionata dalla notizia ricevuta poche ore fa Marilù Mastrogiovanni, inclusa nel calendario 2026 della DIA con la motivazione ufficiale che la descrive come «giornalista che vive tuttora sotto protezione dello Stato, bersaglio di decine di querele temerarie e azioni intimidatorie per le sue inchieste coraggiose su mafia, ecomafia e corruzione in Puglia».
Un riconoscimento arrivato all’improvviso, accompagnato da un’emozione che lei stessa definisce travolgente. Può raccontarci com’è andata?
«È cominciato tutto con un fatto curioso, che però dice molto della mia vita quotidiana. Non rispondo ai numeri sconosciuti: non posso farlo e ho alle spalle brutte esperienze. Così, quando ho visto questo numero che mi cercava da giorni, l’ho bloccato. Mi è arrivato un messaggio: era il colonnello Leo, capo della DIA di Bari. Voleva parlarmi. Ho pensato subito al peggio: misure di protezione aumentate, qualche pericolo nuovo. Invece mi dice che la DIA Nazionale stava per pubblicare il calendario istituzionale e che mi avevano scelta come testimonial per le giornaliste d’inchiesta. Quando ho capito che non era uno scherzo, mi sono messa a piangere. Ho chiamato mio marito Mario e abbiamo pianto insieme: era un riconoscimento inaspettato e potentissimo, perché arrivava da dentro, da chi sa davvero cosa significa fare questo lavoro e quali prezzi comporta».
Perché questo riconoscimento l’ha toccata così profondamente?
«Perché io sono molto legata alle donne e agli uomini della DDA e della DIA. Mi hanno salvato la vita, letteralmente. Hanno fatto la differenza tra vivere e morire in momenti che non dimenticherò mai. Quando ho saputo della scelta, mi sono passati davanti gli occhi vent’anni di lavoro, di paure, di coraggio, di inchieste scavate nelle crepe del sistema. E sapere che loro – proprio loro – hanno deciso di raccontare il mio lavoro usando parole limpide, perfino spigolose, parlando apertamente delle querele temerarie e delle intimidazioni subite… ecco, questo non me lo aspettavo. È raro che un’istituzione antimafia riconosca con tanta chiarezza ciò che significa davvero fare giornalismo d’inchiesta».
Si è domandata perché la scelta sia ricaduta su di lei?
«Continuo a non darmi una spiegazione. In Italia ci sono colleghe straordinarie, alcune vivono sotto scorta, altre sono molto più note di me. Non so cosa abbia orientato la loro decisione. So però che hanno scelto di premiare il giornalismo che va oltre i flash della cronaca, che studia, approfondisce, controlla il potere. E che spesso paga prezzi altissimi. Io accolgo questo gesto con gioia e senso di responsabilità».
Le hanno chiesto di infondere coraggio a colleghi e colleghe. Crede che la sua testimonianza possa servire?
«Non lo so. Il giornalismo che ho scelto è radicale: libero, indipendente, con una casa editrice fondata per poter pubblicare senza condizionamenti. Non credo che il mio modello sia replicabile, ma forse può esserlo lo spirito: la pulizia intellettuale, il non risparmiarsi, il non censurare ciò che è vero. Le mie inchieste sono sempre nate da piccole crepe che rivelavano scenari più ampi. E oggi quelle crepe esistono eccome: la Puglia è al primo posto per numero di procedimenti per corruzione secondo l’ultima rilevazione di Libera, ed è stabilmente sul podio dell’ecomafia secondo Legambiente. Questo dovrebbe inquietarci molto di più di quanto non faccia».
Da quali parti della società arriva la spinta più forte a continuare?
«Dai giovani. Dalle ragazze e dai ragazzi delle scuole e dell’università, dai miei studenti a Scienze della Comunicazione e dai praticanti del Master di giornalismo. Hanno una passione autentica per la verità e per la deontologia. Vogliono essere la voce di chi non ha voce. E questo è già un gesto profondamente antimafia: significa stare dalla parte degli ultimi. Loro credono nel giornalismo come presidio di democrazia, come strumento di costruzione del pensiero critico. Vedere i loro occhi che brillano mi convince che ho fatto la scelta giusta».
Qual è l’immagine più autentica del lavoro che svolge un giornalista d’inchiesta?
«Bisogna uscire dalla retorica dell’eroe. Questo è un lavoro fatto anche di noia, di studio minuzioso, di ricerca, di ascolto. Ed è fatto soprattutto di fiducia: di persone che scelgono di affidarti frammenti delicatissimi della loro vita sapendo che non li tradirai. È lì che si fonda il nostro ruolo: nel custodire le fonti, nel raccontare ciò che gli altri non vogliono che venga raccontato. Finché ci saranno giovani disposti a farlo, a studiare, a scavare, a difendere i diritti attraverso la verità, allora continuerò ad avere coraggio anch’io».









