Sfatata la favola cinematografica di Checco Zalone e della difesa del posto fisso – come lo spronava a fare il senatore Nicola Binetto, interpretato a Lino Banfi – a ogni costo. La Cgia di Mestre, elaborando i dati Inps, fotografa un’altra realtà che, nel film zaloniano avrebbe fatto la felicità della dottoressa Sironi: in alcune regioni della Penisola non si arresta la fuga dal posto fisso. In un paese che ha sempre meno giovani, le imprese si fanno una guerra spietata per trattenere e/o accaparrarsi i dipendenti più qualificati e migliori, attraverso contrattazioni di benefit, stipendi più alti, welfare aziendali, concessioni lavorative, tanto che – nei dati elaborati dall’ufficio studi di Cgia di Mestre – le dimissioni volontarie dei dipendenti privati a tempo indeterminato con meno di 60 anni, nel 2022, sono cresciute del 29,1 per cento rispetto al 2019, anno pre-Covid, con un aumento di 236 mila unità. Insomma, un paradosso italico «con una offerta di lavoro in forte aumento e una domanda che scarseggia il rischio che le aziende si “rubino” i dipendenti migliori è molto elevato».
Solo qualche giorno fa la Cgia di Mestre aveva diffuso un altro dato: «l’anno scorso è stato raggiunto una incidenza dell’84 per cento di coloro che hanno un contratto di lavoro a tempo in determinato (15,57 milioni su 18,54 milioni) sul totale dei lavoratori dipendenti» per aggiungere che confrontando «il numero di lavoratori dipendenti del 2023 con il posto fisso sempre con lo stesso dato del periodo pre-pandemico, l’aumento è stato di 742 mila unità (un aumento del 5 per cento)».
Tornando alla fuga dal posto fisso, L’analisi è stata condotta dall’Ufficio studi della Cgia che ha messo a confronto 8 indicatori (dipendenti con paga bassa; occupati sovraistruiti; occupati con lavori a termine da almeno 5 anni; tassi di infortuni mortali e inabilità permanente; occupati non regolari; soddisfazione per il lavoro svolto; percezione di insicurezza dell’occupazione; part time involontario) prevalentemente di natura qualitativa, che sono stati “estrapolati” dal rapporto Bes (Benessere Equo Sostenibile), presentato qualche settimana fa dall’Istat. Una classifica che vede in testa la Lombardia e in coda la Basilicata, con una divario difficilmente colmabile, visto che in Lombardia, con l’86,3 per cento, la qualità del lavoro e, conseguentemente, il benessere aziendale non hanno eguali nel resto del Paese, mentre la maglia nera lucana fa registrare una percentuale del 12,5 per cento, con la Puglia, con il 28,7 per cento (a pari merito con il Molise) che occupa il diciassettesimo posto in classifica. Invece, la Puglia è tra le tre peggiori regioni italiane dove si registrano incidenze più elevate di lavoratori dipendenti che hanno dichiarato nel 2020 di aver ricevuto una retribuzione bassa rispetto alla mole e alla qualità del lavoro prestate. Nell’ordine la bassa classifica è occupata dalla Calabria, all’ultimo posto, con una percentuale del 19 per cento, preceduta dalla Puglia, con il 17,6 per cento, che segue la Sicilia con il 16, 1 per cento. Poco più in alto in classifica la Basilicata, con una percentuale pari al 14,2 per cento, oltre il doppio del dato della provincia autonoma di Trento, che guida la classifica nazionale con una percentuale del 6,1 per cento.