L’esodo silenzioso dei giovani dalla Puglia è un fenomeno che si trascina da anni, ma che oggi mostra tutti i suoi effetti: meno nascite, più partenze, città svuotate e piccoli comuni ridotti a enclave di anziani. «È arrivato il momento di sfruttare il potenziale delle tecnologie digitali per creare occupazione, attrarre competenze e ricostruire fiducia nelle aree del Mezzogiorno», spiega il professor Sergio D’Angelo, sociologo del lavoro.
Quali sono i motivi principali che spingono i giovani ad andarsene?
«Innanzitutto le occasioni professionali. Nei Paesi del centro e nord Europa, e anche nelle regioni del Nord Italia, i giovani trovano contratti più stabili, percorsi di carriera, un ambiente di lavoro più moderno. In Puglia, invece, la struttura produttiva è fatta in gran parte da microimprese con meno di dieci dipendenti, prive di reparti per la formazione o la valorizzazione del personale».
Lo spopolamento ormai riguarda non solo i piccoli centri ma anche le grandi aree urbane. Come mai?
«Le grandi città, come Bari, Taranto, Foggia, sono coinvolte, ma il fenomeno più drammatico è quello che investe le aree interne. Piccoli comuni che non riescono a trattenere né i giovani né le fasce adulte. E non è solo un problema di lavoro o infrastrutture. C’è anche un fattore culturale: nei piccoli centri della Puglia e del Sud in generale esiste ancora un forte controllo sociale, una pressione ambientale che le nuove generazioni vivono come un ostacolo alla libertà personale. Questo spinge molti a cercare una vita più libera altrove».
Cosa si può fare per invertire questa tendenza?
«La vera occasione è rappresentata dalla rivoluzione digitale. Non servono più le grandi fabbriche dell’era industriale: si può lavorare da remoto, fare impresa da piccoli centri, senza essere fisicamente in una metropoli. Questa transizione dovrebbe essere colta con decisione. I soggetti responsabili sono due: i policy maker, che devono creare le condizioni normative e infrastrutturali, e gli imprenditori, che devono finalmente puntare sull’innovazione e sulla valorizzazione del capitale umano. Servono aziende con cultura d’impresa moderna, non realtà che talvolta non stipulano nemmeno contratti regolari».
Quali altri settori potrebbero contribuire al rilancio?
«Il turismo, certamente, ma non nelle forme attuali. Adesso è uno dei settori che più sottopaga, con altissimo turnover e precarietà. I giovani non vogliono lavorare in queste condizioni. Se si vuole rendere il turismo un settore attrattivo, bisogna cambiarne radicalmente le regole, riconoscere i diritti, offrire stabilità. Lo stesso vale per l’agricoltura: può tornare ad avere un ruolo, ma solo se rinnovata con tecnologie, automazione, filiere di qualità. Nessuno tornerà nei campi per fare il lavoro di sessant’anni fa, ma un’agricoltura moderna e ben retribuita può diventare una scelta di vita per molti giovani».
Se non si interviene, quale scenario ci aspetta?
«Uno scenario già visibile: meno giovani, più anziani, meno dinamismo. Le città e i paesi si spengono, non solo demograficamente, ma anche culturalmente. Una società senza giovani è una società che non cambia, che resta ferma, chiusa, autoreferenziale. E, paradossalmente, quei giovani che abbiamo formato nelle nostre famiglie e nelle nostre scuole andranno a innovare, produrre e creare ricchezza altrove, per altri paesi. È un paradosso che non possiamo più permetterci».
C’è ancora tempo per reagire?
«Siamo in ritardo, ma non è troppo tardi. Se investiamo ora, potremo vedere risultati fra cinque, dieci anni. Se non facciamo nulla, il declino sarà sempre più evidente. Abbiamo ancora una finestra aperta per cambiare rotta, ma servono visione politica, responsabilità imprenditoriale e fiducia nei giovani. Solo così potremo fermare questa deriva che, altrimenti, rischia di diventare irreversibile».