Sociologo per passione e tenacia, scrittore, amante di libri e di quadri. Giandomenico Amendola, classe ‘41, al principio della carriera, negli anni verdi, aveva la strada già avviata da un clima culturale familiare a doppio filo; era un avvocato civilista, come i suoi genitori, entrambi avvocati e anche giornalisti. La mamma, napoletana, fu una delle fondatrici dell’emittente televisiva “Telebari”. La scelta poi di abbandonare la professione forense, a fine anni ‘60, gli costò l’ira del padre ma si sa, al cuor non si comanda e a soli 39 anni, nell’80, ottenne la prima cattedra di sociologia generale, nella Facoltà di Lettere e Filosofia di Bari. Oggi il professor Amendola è tra gli intellettuali più illuminati del nostro tempo.
Ripercorrendo la sua carriera brillante possiamo ben dire che sia stata la decisione giusta?
«A fare l’avvocato mi annoiavo; quell’energia positiva l’ho invece avvertita quando facevo l’assistente all’Università e così ho scoperto per davvero la città dove sono nato. Dirò di più, nel ‘70 a Bari venne Ludovico Quaroni, un urbanista, architetto, saggista e docente universitario; lavorava per la città vecchia, per progettare un piano esemplare da mostrare poi all’Italia. Si rivolse alla psicologa Lidia De Rita e fu lei, per un caso e mia fortuna, a consigliargli il sottoscritto. Sono stati incontri che hanno direzionato i miei studi e penso al mio libro “La comunità illusoria – disgregazione e marginalità urbana: il borgo antico di Bari” edito da Mazzotta e con la premessa dello stesso Quaroni».
Numerosi lavori di penna, ricerche, una cattedra anche a Firenze, dove ha lavorato per 13 anni, nella Facoltà di Architettura e poi anche al Politecnico di Bari, dopo aver lasciato Filosofia, nell’89. Non solo, ha svolto ricerche in importanti Università nordamericane. La domanda nasce spontanea: quanto l’architettura di un luogo incide sulla collettività e in riferimento a questo che visione ha di Bari?
«C’è una stretta correlazione. Incide tutto, l’ambiente, le amicizie, ceto sociale e così via».
Un esempio?
«Pensi al quartiere Libertà, era quello degli operai, del dopo lavoro. Poi Madonella, dove abito, era variegato socialmente e oggi è decisamente multietnico, una sorta di “insalatiera”, con una scuola, il Balilla, dove si parlano cinquanta lingue diverse e questa è una ricchezza. Poi mi viene in mente il San Paolo, l’allora “Cep”, dove alla fine degli anni 50 ci mandarono una parte di residenti di Bari vecchia ed era una zona semideserta».
E il borgo antico?
«E’ stato chiuso in una capsula con la nascita della città nuova. Bari vecchia è stata invisibile per tanto, troppo tempo e non è bastato un solo Piano Urban per farla rinascere».
L’ambiente urbano si intreccia quindi con le vite dei singoli ma più in generale Bari?
«Ha la firma del fascismo. Basta guardare il Lungomare, dai palazzi dell’Incis, a cui il fascismo teneva particolarmente perché c’erano i servitori dello Stato, a quello della Provincia o piazza Armando Diaz. Questa città è il simbolo di quel movimento politico d’estrema destra».
Come mai proprio Bari, qui al sud Italia?
«Napoli aveva un’identità troppo forte per essere assoggettata, troppa storia. Stessa cosa valeva per Roma, la culla della classicità».
Quindi Bari è in gran parte inventata?
«Si è sempre reinventata, sognando di diventare come Napoli. In realtà, non avendo quel tipo di passato, ha sempre coniugato i verbi al futuro».
E oggi, di fronte alle ultime vicende politico giudiziarie che hanno travolto la città che visione ha?
«Tutto questo per Bari è una botta molto forte e deduco che arriveranno a sciogliere il Comune. Il Centro sinistra comunque resta più forte, il sindaco Decaro ha svolto un ottimo lavoro e ha lasciato un segno. Prevedo un governo di sinistra».
E la malavita, la corruzione dei colletti bianchi?
«C’è anche altrove, pensi a Napoli o Palermo; il business della droga e il riciclaggio del denaro derivante da attività illecite è cosa ben nota. Anzi, abbiamo anche esportato la malavita».
Non ci resta che “pregare” per un futuro con meno corruzione. A proposito, lei ha il dono della fede?
«No. La mia fede, anzi li chiamerei hobby, sono la collezione di quadri, 500 “Ex voto” e 5000 volumi».
Siamo passati al microcosmo; ha una moglie e due figli ove 50, cosa sogna ancora per il futuro?
«Avere una salute migliore, ora le mie condizioni sono precarie e vorrei invecchiare al meglio».