«Il problema principale del ddl Calderoli è che cancella il principio solidaristico che da sempre regola i rapporti tra lo Stato e le Regioni, alimentando così le disuguaglianze tra le diverse zone del Paese»: l’economista Carlo Cottarelli, senatore indipendente di centrosinistra con un passato da commissario straordinario per la revisione della spesa pubblica, stronca il progetto di autonomia differenziata recentemente approvato dal Consiglio dei ministri. Le parole di Cottarelli, che nel 2018 incassò per poi rinunciare all’incarico di formare un governo affidatogli dal presidente della Repubblica, arrivano nel giorno in cui, a Bari, associazioni, sindacati, forze politiche, economisti e intellettuali si mobilitano per ribadire il no a una riforma bollata come «secessione dei ricchi».
Senatore Cottarelli, il governo Meloni ha deciso di accelerare sull’autonomia differenziata. Quali sono i pericoli insiti in questo progetto?
«Il problema principale è che il ddl Calderoli elimina il principio solidaristico che regola i rapporti tra Stato e Regioni. Da sempre, infatti, le entrate fiscali maturate in una determinata Regione vengono trasferite allo Stato centrale che successivamente le utilizza in modo più o meno omogeneo sull’intero territorio nazionale. Il ddl Calderoli, invece, stravolge questo principio: la Regione riceve la base imponibile ma, se questa stessa base imponibile cresce di più, la maggior crescita resta alla Regione. Ciò vuol dire che le Regioni in grado di produrre maggiori entrate, come la Lombardia, tratterranno una maggiore quantità di risorse».
Ma questo non potrebbe costituire, per le Regioni, un incentivo ad amministrare meglio e ad avviare politiche durature di sviluppo?
«Certo, trattenere la maggior crescita sul territorio è uno stimolo a competere e a crescere. Però serve equilibrio, se si vogliono scongiurare la rottura del principio solidaristico e il conseguente rischio di alimentare le disuguaglianze tra le diverse aree del Paese. Serve un federalismo più saggio».
Quale potrebbe essere, dunque, il modello adeguato?
«Quello che viene adottato nell’ambito della sanità: le risorse maturate sul territorio di una Regione confluiscono al centro, vengono redistribuite sulla base di criteri equi per poi essere gestite dalle amministrazioni locali».
Tornando al ddl Calderoli, qualcuno intravede un ulteriore rischio, cioè quello che ciascuna Regione concordi con lo Stato il riconoscimento di funzioni più ampie in numerose materie. Se così fosse, la spesa che lo Stato dovrebbe sostenere per finanziare queste ulteriori funzioni lieviterebbe sensibilmente. Che cosa ne pensa?
«Non è un problema di maggiori costi a carico dello Stato perché, almeno in linea teorica, con le funzioni si trasferiscono anche le risorse necessarie per finanziarle. Non a caso il ddl Calderoli, nella versione licenziata dal Consiglio dei ministri, prevede che il trasferimento di funzioni avvenga senza ulteriori costi a carico dello Stato. Il problema vero risiede nelle modalità di allocazione e gestione delle risorse».
E se poi, alla prova dei fatti e a dispetto di quanto previsto dal governo Meloni, le ulteriori funzioni attribuite alle Regioni facessero lievitare i costi a carico dello Stato? Quest’ultimo sarebbe costretto ad aumentare le tasse, a tagliare altre spese o a fare altro debito pubblico?
«Sì, in quel caso lo Stato dovrebbe metterci più soldi. Ma al momento non è chiara la fonte dalla quale potrebbe prelevare queste ulteriori risorse, proprio perché il ddl Calderoli punta a essere neutrale e non prevede ulteriori costi a carico dell’amministrazione centrale».
Da più parti, nel frattempo, si invoca la definizione dei Livelli essenziali delle prestazioni (Lep) prima dell’approvazione del ddl Calderoli: basterà individuarli e finanziarli per eliminare, o almeno ridurre, il rischio di un aggravamento delle disuguaglianze tra le varie aree del Paese?
«I Lep hanno senso in teoria. Ma è un controsenso dire che le Regioni debbano mantenere un certo standard di prestazioni e servizi e, nello stesso tempo, consentire a ciascuna di esse di trattenere la maggior crescita sul proprio territorio. In un quadro simile nemmeno i Lep valgono a ridurre il pericolo di disparità. Senza dimenticare che il fondo di perequazione previsto non contempla nuove risorse, ma è soltanto la somma di risorse già a disposizione».
Lei è un senatore indipendente, ma di area di centrosinistra: non le provoca imbarazzo il fatto che Stefano Bonaccini, presidente dell’Emilia-Romagna e probabile prossimo segretario del Pd, sia stato tra i principali sostenitori dell’autonomia?
«La differenza sta nelle caratteristiche dell’autonomia invocata da Bonaccini che non prevedeva alcuna cessione della base imponibile alle Regioni né la rottura del principio solidaristico di cui abbiamo parlato. Quella sostenuta dal ministro Calderoli e dalla maggioranza parlamentare di centrodestra è la versione estrema dell’autonomia e perciò va contrastata».