Il filo rosso delle sue opere è nascosto in una visione della realtà che oscilla tra il rispetto della natura e il fascino della bellezza; in tutte le sue forme.
Lui è Iginio Iurilli, classe ‘43, nato a Gioia del Colle ma cresciuto poi a Trani, Bari e Roma. Fermiamoci al periodo di Bari, durante la sua infanzia e adolescenza. È’ lì che si intravedono i primi segnali del futuro artista talentuoso.
Un bambino che amava disegnare: c’erano forse artisti in famiglia?
«Nessun DNA direi; mio padre era un maresciallo dell’Aeronautica e prestava servizio nella vicina base aerea; ecco perché sono originario di Gioia e mia madre, che pure era estranea al mondo dell’arte, ha visto in me da subito uno spirito propenso all’immaginazione figurativa. Abitavo al quartiere Libertà e tornando da scuola, per strada, mi divertivo con il dito a disegnare nell’aria, a comporre nel vento quello che avevo già in mente. Mia madre tornò a casa e sentenziò in famiglia: “dobbiamo iscriverlo all’Istituto d’Arte”. Avevo undici anni e il mio percorso è stato proprio quello, prima nel liceo di Bari scelto da mia madre, dove poi da adulto sono tornato ad insegnare, e poi a seguire all’Accademia delle belle Arti di Roma». Così, quei disegni che vedeva solo lui nello spazio bianco dell’aria sono diventati visibili a tutti e lo hanno reso uno degli artisti più apprezzati del panorama pugliese e non solo.
Ha spaziato dalla pittura alla scultura con un preminente pensiero a sfondo sociale: la denuncia ecologica. Ci spiega il concetto?
«Questo è stato il mio approccio, nei primi otto anni in cui ho disegnato. Non il trullo o l’ulivo solo nel loro massimo splendore in terra pugliese ma la verità a largo raggio e cioè il cimitero di auto abbandonate in un contesto extraurbano con veri e propri rifiuti tecnologici che deturpavano il paesaggio. Avevo 26 anni e il mio sguardo si posava su questi depositi d’auto a cielo aperto, dopo il muretto a secco. Ora non se ne vedono più ma a quei tempi era cosa usuale».
L’arte come forma di ribellione quindi, un modo per scuotere le coscienze, per comunicare senza le parole. Ha portato avanti questi temi, sul rispetto dell’ambiente, anche dopo?
«Si, ho usato materiali organici recuperando legni consunti, abbandonati dal mare per forgiare poi spade primordiali; sono i miei lavori negli anni della sperimentazione di nuove tecniche e materiali, a cui poi si aggiungono i primi bassorilievi in legno intagliato ricoperti di polvere di marmo, di sabbia del deserto e di sale». Nel proficuo e rilevante percorso professionale di Iurilli si contano numerose mostre anche internazionali e le sue opere scultoree hanno fatto parte o sono state ammirate in prestigiose collezioni private e pubbliche come quella, per citarne alcune, della Pinacoteca provinciale di Bari, della galleria “L’Attico” di Roma o della Fondazione “Pino Pascali” di Polignano.
Oltre i temi della terra e del mare e sempre attraverso un linguaggio di “protezione di queste risorse” si arriva, negli anni ‘90 alle grandi installazioni, a partire dai ricci, come quella del‘98 in Sardegna “Monumento al riccio”, un’opera di circa due metri e mezzo di diametro, presentata poi al Museo Pascali nel 2014. Perché il riccio diventa così grande?
«Un messaggio; per difendersi dall’aggressività dell’uomo. Si ingigantisce. Come fa per esempio un piccolo gatto di fronte ad un cane minaccioso. La natura si fa protettiva di sé stessa, diventa grembo materno e i titoli delle installazioni sono infatti indicativi “Tienimi – Non lasciarmi – Io e te” e così via. I ricci come anche le cozze; rimandano ad una difesa fisiologica». I ricci come le altre forme biomorfe, meduse e rose di mare, si presentano con materiali inediti come la polvere di quarzo. La produzione di Iurilli, tra tradizione e sperimentazione, spazia ora attraverso un linguaggio di arti figurative e di identità culturale e l’elemento ricorrente è senza dubbio il “fuori misura”, dai ricci al tema floreale. L’arte del maestro rimanda a temi dell’ambiente e della sua eco sostenibilità ma non solo; indicano valori collettivi. E sempre sul tema della protezione, nell’ultima personale protrattasi fino a novembre 2021, “La forma del colore”, al castello V di Monopoli e curata da Lorenzo Canova, lo scultore ha “giocato” anche con il colore installando una gabbia “magica” a misura d’uomo dove oltre alle maglie di rete metallica ci sono, incastonate, centinaia di cerbottane in carta colorata, un cubo scenico che rimanda ai giochi dell’infanzia. Un allestimento tutto che parte dalla pittura per arrivare alla scultura e tornare di nuovo al dipinto.
E le rose, quelle grandi, a volte aperte o semichiuse, e che spiccano tra le sue opere?
«Qualcuno dice che sono esplicite allusioni sessuali; sono invece non intenzionali ma spontanee e sottintese».
Dove e quando potremo ammirare ancora il suo estro?
«A giugno, a Bari, una mostra su di una mia idea originale. Preferisco però non precisare nulla».