Una specie di Garibaldi della cucina. Dai suoi racconti viene fuori l’immagine di uno chef “dei due mondi”: negli anni ‘80 tornò in Italia dall’America e portò con sé tequila e peperoncino, per dare agli spaghetti un retrogusto messicano. Peppe Zullo oggi per tutti è il simbolo della cucina contadina, quello che inventò il chilometro zero prima ancora che diventasse una moda patinata. Nel 2015 rappresentò la cucina pugliese all’Expo di Milano. Testimonial per la LUISS del primo orto didattico universitario. Dalla sua tenuta a Orsara di Puglia, nella Daunia, inventa ricette con le erbe selvatiche raccolte nel suo bosco e insegna ai bambini la felicità. Sì proprio la felicità, lo chiama Recovery food, parafrasando il Recovery Fund di draghiana memoria. «Il contatto diretto con la natura è fondamentale, per ripartire alla grande dobbiamo tornare agli spazi aperti, alla spontaneità dei frutti e delle verdure che nascono rigogliosi nei prati e all’ombra dei boschi». Tanto che secondo lo chef di Orsara «si dovrebbe introdurre nelle scuole insieme all’Educazione civica anche un’ora di educazione alimentare».
Ma com’è cambiata l’enogastronomia in questi 40 anni?
«Siamo in piena fase di cibo virtuale».
Ovvero?
«Quando delle persone si siedono a tavola la prima cosa che fanno è fotografare il piatto. Fino a qualche anno fa questo era inimmaginabile».
E le dà fastidio o le fa piacere?
«Devo riconoscere che le nuove tecnologie comunque sono uno strumento di comunicazione, io per primo le utilizzo. Ma quello che non condivido è l’abuso che se ne fa, gli eccessi non mi piacciono. Se poi penso a come una volta si scopriva un ristorante, oggi nel giro di pochi minuti basta andare sui siti specifici e si scopre tutto quello che serve. Quando io finii sulle riviste di settore negli anni ‘80 ricordo che arrivarono dei giornalisti esperti, ma esperti davvero».
E come mai arrivarono da lontano per scoprire le sue pietanze?
«Perché girava voce che fosse venuto un tale dall’America che si era inventato qualcosa di nuovo, allora non c’era tutto quello che esiste ora intorno al cibo. Mi bastò inventarmi una pasta saltata con tequila e peperoncino messicano. Poi iniziavo a parlare di cibo della terra, di cucina contadina. Ora ne parlano tutti. Il mio ristorante è rimasto nello stesso posto di allora, in campagna. Risulto ancora iscritto come coltivatore diretto, come agricoltore».
Nel futuro come cambierà la gastronomia?
«L’Italia è la nazione che ha la maggiore varietà di materie prime, abbiamo un patrimonio infinito, la nostra storia è legata alla cucina casalinga, ed è su quella che bisogna puntare».
Cioè?
«Sulla cucina semplice. Ho come l’impressione che certi grandi chef facciano di tutto per complicare le ricette, invece il futuro passa dalla semplicità. Ho anche presentato un progetto al Toronto College dal titolo “Simple food for intelligence peaple”, cibo semplice per persone intelligenti. È un po’ una provocazione nei confronti di chi tenta di esagerare, come se ci si vergognasse degli ingredienti della nostra terra. Allora io ho proposto un piatto con solo tre ingredienti: olio, fave bianche di Carpino e cicorielle selvatiche. Ed è anche accessibile economicamente».
A proposito di prezzi, che mi dice dei rincari post pandemia?
«I prezzi devono essere proporzionati a ciò che si offre. Il grande problema è che c’è un po’ di confusione nel campo della ristorazione, un agriturismo deve essere un agriturismo e una pizzeria deve essere una pizzeria, invece ci si improvvisa a volte e la conseguenza è che al cliente i prezzi sembrano alti. Dipende da quello che si sceglie, dall’esperienza che si vuole fare. Non bisogna pensare che un qualsiasi posto in cui si mangia sia un ristorante».
Ma il rincaro delle materie prime è un problema vero o un alibi?
«Certo che c’è stato un aumento di tutto, gas, elettricità, ma il discorso non cambia, non bisogna perdere di vista il segmento di clientela che si sceglie, il target da cui partire. I ristoranti stellati hanno dei costi di gestione altissimi, è inevitabile che i prezzi siano alti. Comunque siamo in attesa di capire se il fenomeno si attenua, non è ancora il momento per trarre delle conclusioni, è una fase storica delicata».
Anche gli show televisivi fanno la loro parte.
«C’è una comunicazione eccessiva intorno a questo ambiente, negli ultimi anni ha cominciato a diffondersi l’idea che i cuochi possano essere delle star».
E invece?
«Ci vuole fatica e sudore, c’entra poco lo spettacolo, infatti la tendenza sta cambiando, non ci sono più folle di iscritti agli istituti alberghieri, hanno capito che lavorare in cucina è dura, comporta sacrifici continui. Bisognerebbe rimodulare la comunicazione in merito».
Sta facendo anche dei corsi per giovani studenti e bambini.
«Si tratta di una vera e propria operazione culturale, assieme a delle persone generose e geniali di questa terra di Capitanata faremo vivere a tante ragazze e a tanti ragazzi la gioia di conoscere e manipolare il cibo, raccoglierlo dalla terra e trasformarlo in un piatto ricco di sapori, valori nutritivi, storia e futuro, con il professor Mariano Laudisi, impegnato in un progetto nazionale su ‘La scuola della felicità’ e l’edutuber Rocco Dedda, autore e protagonista del format ‘Un quarto d’ora col prof’ che sta ottenendo successo a livello nazionale».