C’è una corda tesa tra la stand up comedy e i classici; a saperlo fare, ci si può camminare sopra, unendo due generi apparentemente incoerenti tra loro e che mescolati insieme, invece, parlano dal passato «ricordando il futuro». A camminare su quel filo, funambolico e schietto come sempre, c’è Paolo Rossi, che dall’Isola del Cinema di Roma ci parla di Orazio Flacco con il suo “Stand up Orazio”, andato in scena ieri, che rientra nelle iniziative del format “Basilicata Terra di Cinema” dell’Apt Basilicata. Come per Omero e Molière, è la volta del poeta lucano. Dopo il “Teatro d’emergenza” tra i cortili dei palazzi, nei tempi più bui del lockdown, Rossi torna in scena col suo teatro e i suoi flussi di coscienza che sono anche «generi di conforto laico».
Di cosa parliamo quando parliamo di Orazio?
«Orazio è uno dei padri fondatori della satira, le sue libere associazioni sono evidenti e mi rimangono addosso».
Il mix con lo stand up arriva da qui?
«Lo stand up non è altro che un’affabulazione in cui a essere privilegiata è la persona, più che l’attore o i personaggi che evoca. Ne ho già fatti altri con Omero, Shakespeare, Molière. Tutto quello che mi rimane addosso della lettura lo porto sul palco. Parto con quello che è il mio stile, il mio mood, il mio metodo in libere associazioni e improvvisazione a flusso di coscienza, molto funambolico. In questo senso i musicisti che mi accompagnano sono più una pattuglia acrobatica che un’orchestra. Così sul palco arriva l’effetto che mi fa aver letto quel libro. La lettura c’è, ma a piccole dosi, non mi piacciono questi reading di cui si sta abusando ultimamente. Nella performance uso i testi come trampolini di rilancio».
I classici raccontati così sono più vicini?
«Assolutamente sì. I giovani soprattutto, ma anche gli anziani, i libri amano farseli raccontare. Non con un’analisi critica, filologica ed etimologica, ma riuscendo veramente a tradurre le storie che racconti sul palco nello spirito e nel carattere di chi queste opere le ha buttate giù. Si parte dai classici, ma in qualche modo è una via di immaginare il passato per ricordarsi il futuro».
Se i classici ci spiegano anche il presente, come si fa a competere scrivendo oggi?
«Secondo me vanno letti innocentemente, hanno una scrittura più semplice di chi scrive sul presente e ha più a che fare con il fattore umano. Questo mi ha colpito di Orazio, è facile ritrovare gli stessi temi. Più che l’autore o alcune sue pagine, trovo il senso nello spirito con cui lavorava, di cosa parlava, quali storie lo attraevano, quali nel raccontarle gli creavano problemi. Una cosa che mi ha molto colpito in alcuni passi è la discussione con i colleghi, cosa che da noi manca un po’».
Durante i mesi più bui di pandemia è arrivato il suo “Teatro d’emergenza”. Secondo lei perché l’arte non viene (quasi) mai inserita tra i beni di prima necessità quando invece può salvare la vita?
«Paradossalmente chi ha prestato più attenzione all’arte sono stati i regimi dittatoriali, perché sanno quanto l’arte è pericolosa. Qui si usa più la tecnica di rimozione e di emarginazione di chi fa questo mestiere. Dopodiché, pensando alle lettere che Orazio scriveva ai colleghi, se lo facessi io direi “ragazzi stiamo schisci, non andiamo a pontificare, non andiamo a cercare la verità; siamo un genere di conforto laico che in questo periodo storico è un bene di prima necessità, necessario per resistere”».
Come mai le chiedono sempre perché non ha fatto il calciatore?
«L’ho fatto in realtà, ma con scarsa fortuna. In quel periodo il calcio cambiò, arrivò quello che si chiamava il calcio all’olandese: non esistevano più attaccanti e difensori. Cedevo il ruolo prima di giocare, non ero portato per il calcio totale. Faccio teatro totale, però: in questo senso, recito all’olandese. Posso spaziare da Lucio Battisti a “La tempesta” di Shakespeare in un secondo. Con un senso: questo mi ha insegnato l’improvvisazione e l’essere sincero sul palco».
Agnese Ferri