Nelle scorse settimane ha fatto parlare molto di sé, rivelandosi uno degli studiosi più importanti per impatto nel settore “clinical scientist”. Ci stiamo riferendo al professor Giancarlo Logroscino (ordinario di Neurologia presso l’Università degli studi Aldo Moro di Bari e direttore del Centro per le Malattie neurodegenerative e invecchiamento cerebrale con sede a Tricase), che ha ottenuto un importante premio nel proprio ambito professionale. Ne abbiamo voluto discutere direttamente con l’interessato, per comprendere meglio di che cosa si tratti.
Professor Logroscino, spieghi anche a noi “comuni mortali”: cosa significa esattamente aver raggiunto quota 100 nell’indice di Hirsch?
«È un simbolo. Si tratta del criterio che viene utilizzato per quantificare la prolificità e l’impatto scientifico di un autore. Si basa sia sul numero delle pubblicazioni sia sul numero di citazioni ricevute. Raggiungere quota 100 nell’indice di Hirsch significa avere alle spalle almeno cento diversi lavori o pubblicazioni citate 100 volte da 100 altri autori. Lo ritengo un premio alla costanza, diciamo, e alla passione per questo entusiasmante lavoro».
Quanto ritiene che le esperienze internazionali che hanno contraddistinto la sua carriera l’abbiano completata a livello umano e professionale?
«Ritengo sia fondamentale nella carriera di un ricercatore lavorare in un centro di eccellenza. Nel mio percorso lavorativo mi sono adattato a molti posti e situazioni diverse. Penso, per esempio, a quando ho insegnato sia in centri super quale è Harvard, che in posti del quarto mondo come la Cambogia. Ho avuto un’esperienza di lavoro quasi decennale negli Usa. Lavorando in altri luoghi si apprende un metodo di lavoro diverso e, come per ogni altro aspetto della vita, il confronto con altre realtà, magari anche più strutturate, non può che arricchire».
In cosa può consistere il ponte verso il futuro che auspica di poter creare per le nuove generazioni di ricercatori?
«Da un lato, secondo me, bisogna evitare la cosiddetta “fuga di cervelli”, ma dall’altro lato occorre che anche i giovani comprendano meglio quelle che sono le sfide della ricerca, che mettono sotto stress anche la propria vita e le proprie esigenze personali. Ecco perché è importante raccogliere il guanto di sfida dettato dal mondo della ricerca e provare a comprendere a fondo e in anticipo il futuro che ci attende. Senza caratteristiche quali la formazione di alto livello e la disponibilità al sacrificio, buona parte dei giovani ricercatori non potrà mai entrare nel mercato globale della ricerca . Per far sì che ciò accada occorre una dose notevole di sacrificio individuale e lavorare in strutture competitive con i poli di ricerca migliori del mondo, e in questo è importante una politica conseguente da parte delle istituzioni».
Quale è lo stato dell’arte delle neuroscienze in Italia?
«In Italia, a dire il vero, ci sono ricercatori di grande qualità. Basti dire che è al terzo posto nelle pubblicazioni nel campo delle neuroscienze. Purtroppo, però, come sempre c’è disomogeneità territoriale e a volte anche carenze di strutture. Per esempio, a Tricase, il centro che dirigo si sta distinguendo a livello nazionale ed internazionale, ma non sempre purtroppo è così. Bisogna investire di più sia nelle strutture che nella ricerca in genere».
In Puglia si stanno sperimentando nuovi farmaci nel settore. Ma quale è il futuro che si prospetta?
«Si, abbiamo sperimentato per esempio il “Aducanumba”, primo farmaco causalenella lotta contro l’Alzheimer e ci sono almeno altri tre farmaci analoghi in lista di approvazione negli USA. Prevedo che per il 2025 potrà esserci una svolta completa in materia. La demenza, a ben guardare, è un processo prevenibile e oltre che sui farmaci proprio sulla prevenzione bisogna intervenire ed investire. Ecco perchè non bisogna soltanto aspettare solo il “farmaco miracoloso” (che pure è in arrivo), ma lavorare in anticipo sui fattori di rischio (più o meno sempre i soliti: la dieta, l’attività fisica, il sonno, il controllo ottimale della pressione e del diabete. Se si attuano le giuste strategie e col giusto stile di vita, il rischio di demenza può già diminuire di oltre il 50%. Il processo di prevenzione riguarda tutte le età della vita ed ecco quindi che anche una istruzione di qualità già nei primi anni di scuola e poi una adeguata informazione preventiva svolgono un ruolo chiave nel fronteggiare questa difficile malattia».