Margherita Cassano, la prima donna presidente della Cassazione: «Alla separazione delle carriere dico no»

«Il ruolo del magistrato non è solo fatto di abilità tecnica ma di umanità, capacità di ascolto, di rispetto profondo degli altri e di comprendere le tragedie umane che si nascondono dietro i singoli casi portati alla nostra attenzione». La prima uscita pubblica di Margherita Cassano subito dopo la sua nomina a presidente della Corte di Cassazione, sarà ricordata con queste parole importanti che la rappresentano pienamente. Lei, fiorentina ma di origini lucane, è la prima donna chiamata a ricoprire la carica più alta della magistratura. Una nomina decisa all’unanimità dal plenum del Csm.

La prima donna Presidente. Aver rotto il cosiddetto “tetto di cristallo” aumenta il peso della sua responsabilità?

«Donna o uomo che sia, per chi svolge il lavoro di magistrato deve essere assolutamente chiaro che si tratta di una attività fondamentale prevista dalla nostra Costituzione e che va esercitata con rigore, competenza, equilibrio. Deve essere accompagnata da doti umane autentiche. E queste ultime sono fondamentali perché attengono al rispetto delle persone con cui noi entriamo in contatto, all’attitudine ad ascoltare ciò che esse rappresentano, all’adozione del dubbio metodico quale parametro da parte del magistrato che rifugge da tesi precostituite e che, con atteggiamento di umiltà, proprio per rispettare al massimo questo dubbio metodico e i parametri garantisti che sono delineati dalla nostra Costituzione e dai Codici, deve porsi il problema della verifica e degli standard probatori su cui si fonda la decisione del giudice.

Per quanto riguarda il ruolo della donna nello svolgimento dell’attività giudiziaria, dico che in generale costituiscono ormai una componente significativa della magistratura (il 55%), che però diventa più rarefatta negli incarichi apicali. Le donne devono avere il coraggio di essere se stesse e portare nell’esercizio della giurisdizione l’espressione della formazione culturale femminile che è differente da quella di un uomo. In fondo la democrazia vive proprio della diversità, della pluralità delle opinioni e delle sensibilità. Il mio augurio è che le giovani colleghe siano sempre più motivate a rappresentare la specificità della formazione femminile, con la consapevolezza che ciò arricchisce la dialettica nel confronto con i magistrati uomini».

Lei è stata pm ma anche giudice. Cosa pensa della separazione delle carriere?

«Il bravo magistrato è colui che ha acquisito una pluralità di esperienze in tutti i diversi ambiti della giurisdizione. Credo nell’acquisizione della visione completa della dinamica processuale, cominciando l’attività professionale come giudice e proseguendola poi come pubblico ministero. Prevedere che il magistrato possa cambiare soltanto una volta nella sua vita professionale l’esercizio delle funzioni da referente in giudicante, forse è una previsione troppo rigida se non contribuisce all’arricchimento del bagaglio di ciascuno di noi».

Sulla riforma Cartabia, continuano le polemiche e i problemi si sottolineano a più riprese. Lei cosa pensa?

«Il grosso tema di oggi è quello della responsabilizzazione delle scelte degli avvocati nel proporre o meno domanda di giustizia. Un quadro normativo che muta in continuazione, non consente di operare scelte approfondite perché ci si deve confrontare sempre regole nuove. Io dico che noi tutti abbiamo bisogno di una stabilità del quadro di riferimento normativo.

I tempi della giustizia sono lunghi, i tribunali cadono a pezzi e manca il personale. Come si può superare questo stallo?

«Partirei da premesse molto meno negative e pessimiste perché dal mio punto di vista la giustizia italiana ha fatto enormi passi in avanti sia sulla qualità delle garanzie che sulle regole. Soprattutto sulla durata complessiva dei processi. Se pensa che nel settore della Corte di Cassazione in campo penale la durata media dei processi si aggira intorno a poco più di tre mesi (109 giorni), a fronte di 52.000 ricorsi penali l’anno, capisce che parliamo di un traguardo importante che non ha eguali in Europa. Anche in campo civile possiamo parlare di risultati significativi. Si può migliorare, si deve migliorare, ma rispetto al passato l’analisi non è negativa.

Altro discorso è quello relativo al personale amministrativo che ha un’età media abbastanza alta e si attesta intorno ai 53/55 anni. E’ dagli uffici giudiziari che si leva il grido di dolore. In questo caso sarà necessario attuare una politica di ampio respiro che sono sicura il Ministero della Giustizia vorrà prendere in considerazione, com’è stato fatto in passato, mediante la previsione di concorsi che possano portare a selezionare il personale di cui abbiamo bisogno».

“Lascia che siano le cose a venire incontro a te, non essere tu a cercarle”, è una frase di suo padre, Piero Cassano. Anche lui uomo prezioso per il nostro Paese. Ricordiamo i suoi processi contro il terrorismo a Firenze. E’ stato lui ad ispirare le scelte professionali?

«L’esempio che ho ricevuto in famiglia dai miei genitori stato è importantissimo. Mio padre era magistrato, mia madre insegnante. Tutti e due mi hanno trasmesso i valori che mi guidano nella vita e che mi auguro possano essere condivisi dal maggior numero di persone. Il rispetto profondo degli altri, dell’uguaglianza, e la consapevolezza che ciascuno di noi vive non per sé stesso ma per cercare di donare i propri talenti alla comunità a cui appartiene. E poi il rigore professionale, la dedizione al lavoro e l’assoluta fedeltà allo Stato. E’ inutile che ci siano principi affermati dalla Costituzione se non c’è un’effettività di comportamenti. Mio padre credeva molto nel futuro della Scienza e avrebbe voluto che mi orientassi ad una attività scientifica e non a quella giudiziaria, ma poi è stato orgoglioso e felice della scelta. E sì, cerco nel mio lavoro quotidiano di ispirarmi al suo esempio».

Lei è di origini lucane, che legame mantiene (se lo mantiene) con la terra dei suoi genitori?

«Certamente. Porto con me una sorta di testamento spirituale che mi è stato affidato dai miei genitori che mi hanno raccomandato di non recidere questi collegamento, anche se sono nata e cresciuta a Firenze. M’ispira il ricordo della consapevolezza di quanta strada il nostro Paese abbia fatto, ma anche il Sud e la Basilicata stessa rispetto all’epoca in cui sono nati i miei genitori. Mio padre era del 1919, mia madre del 1928. Tenere a mente da dove si viene significa conservare la memoria degli enormi sacrifici fatti e dei traguardi raggiunti. Ma anche conservare quella tradizione, quella voglia di fare e di combattere propria delle donne e degli uomini di terre svantaggiate».

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