«Credo nella seconda, nella terza e nella quarta possibilità. Ritengo che quella dell’amore per il bene comune sia la nostra salvezza». A raccontarlo è la salentina Luciana Delle Donne, fondatrice di “Made in carcere”.
Che emozioni ha provato quando ha ricevuto l’onorificenza al merito da parte del presidente della Repubblica?
«Sono state molteplici le emozioni. Inizialmente, ho pianto per la gioia e la tristezza contemporaneamente, perché ho pensato subito a mia madre e all’idea che non potessi condividere con lei questo importantissimo riconoscimento, perché è venuta a mancare un anno fa. Poi in tre minuti, mentre parlavo al telefono, ho visto scorrere questi lunghi 17 anni che sono volati. Non ci siamo proprio resi conto di quanto tempo fosse passato. Il presidente Mattarella è stato estremamente disponibile e ha messo tutti a nostro agio».
Le ha detto qualcosa?
«Ci siamo parlati a bassa voce e ha puntualizzato che il nostro è un lavoro importantissimo e fondamentale. Io ho subito chiesto aiuto e gli ho risposto: “Sono 17 anni che combattiamo, non lasciateci soli”».
Ma come è nato “Made in carcere”?
«Facendo il funerale alla busta di plastica o di carta. Scherzi a parte, avevamo ideato la possibilità di realizzare gadget personalizzati con tessuti di recupero, eliminando le buste di plastica o di carta che contengono solitamente qualcosa. Così ci inventammo la shopper bag in tessuto di recupero. In particolare, con tessuti bellissimi che la moda scarta perché non più in voga o perché troppo piccolo il quantitativo per poterne fare qualcosa. E così, invece di buttarlo al macero, lo raccogliamo noi e gli ridiamo un’altra forma di vita. Poteva essere una camicia, invece è diventata una borsa».
Quindi, c’è anche una forma di attenzione verso l’ambiente?
«Sì, i magazzini delle aziende tessili hanno tantissimo materiale da smaltire e noi lo raccogliamo non solo per i nostri laboratori nelle carceri, ma anche per tante piccole sartorie sociali di periferia, alle quali forniamo vari materiali raccolti nel tempo (bottoni, cerniere, merletti). Proprio come un emporio, ma con la differenza che noi doniamo tutto. Sono circa quindici le sartorie sparse in tutta Italia. Insomma, far bene fa bene a tutti».
Prima si occupava di altro. Come è cambiata la sua vita e cosa l’ha spinta a lanciarsi in questa direzione?
«Nella prima vita lavoravo in banca. L’ho fatto per 22 anni ed ero una dirigente. Avevo creato la prima banca online in Italia: mi occupavo di innovazione tecnologica quando pochi parlavano ancora di Internet. Poi scelsi sempre il mondo dell’innovazione, ma sociale. Mi piaceva dare un contributo alle persone dimenticate, abbandonate, e scelsi una delle categorie più bistrattate, di cui nessuno voleva occuparsi né vedere. Infatti, all’argomento carcere tutti voltavano la testa dall’altra parte. Il cambio è stato impattante».
Quanto crede nelle seconde possibilità?
«Credo nella seconda, nella terza e nella quarta. Abbiamo il dovere di provarci come per un figlio. Cerchiamo sempre di vincere con l’amore e la tenacia. Bisogna crederci e lottare ogni giorno, perché prima o poi il miracolo avviene».
Nella menzione che ha ricevuto è specificato il suo aiuto alle donne detenute. Quali sono le difficoltà in più per loro?
«Noi non vogliamo conoscere i reati, perché dobbiamo ricostruire la loro vita, ma spesso ascoltiamo storie veramente difficili e ci chiediamo sempre: “Cosa posso fare per lei?”. Le donne per fortuna sono una percentuale bassissima. Solo il 5%».
Quali sono i lavori più realizzati da Made in carcere?
«A noi non interessa molto vendere gadget personalizzati, borse o biscotti. A noi interessa lavorare su quei valori sottotraccia che ogni giorno ci portiamo a casa e nel cuore. Il risultato estetico e creativo ripara tutte le ferite della vita. Infatti, le donne detenute rinascono con il lavoro in carcere. Spesso non avevano mai visto una busta paga con il loro nome e questo, invece, è fondamentale: serve per costruire fiducia, autostima, speranza, dignità e poi, nel tempo, una nuova identità».
Progetti futuri?
«Lavorare ancora di più con i giovani e le imprese. Far circolare, cioè, l’economia della conoscenza. Il nostro è un modello di economia circolare, ma non solo: ritengo che sia un’economia rigenerativa e riparativa. Mi piacerebbe arrivasse ancora di più nelle scuole e nelle imprese. Già lo facciamo da tanto tempo: questo sarà, per esempio, il decimo anno che ospitiamo in carcere, per un intero mese, un gruppo di giovani studenti dell’università “Luiss” di Roma. Per i ragazzi è una esperienza catartica, fortissima. Piangono tutti. È una delle iniziative più importanti per noi. Inside out, si mescolano ruoli e situazioni ed è importante per comprendere che non si giudica, ma si cercano compagni di viaggio. Subito dopo, i ragazzi e i manager vedono la vita con un altro paio di occhiali ed è utilissimo per aiutare le persone a mettersi al servizio degli altri, con umiltà e generosità, perché ritengo che quella dell’amore per il bene comune sia la nostra salvezza».