Ilaria De Vanna è, come si descrive lei stessa: «Ottimista, attivista per la riforma umana, esperta di giustizia riparativa, vice presidentessa di CRISI cooperativa sociale e, di recente, referente del Centro di Giustizia Riparativa e di Rete Dafne Puglia». La sua solarità immediata è apparentemente in contrasto con il lavoro, serissimo, che fa, che si è scelta consapevolmente e che adora: prevenire i pericoli del disagio e limitare i danni emotivi e sociali causati dalla commissione di un reato, per chi lo subisce, per chi lo compie, per le loro famiglie e la comunità. Inoltre, è formatrice riconosciuta del Forum Europeo di Giustizia Riparativa e autrice (a breve in uscita il suo secondo libro, dopo il primo scritto a quattro mani con sua mamma, Anna Coppola De Vanna, “Riparazioni”).
Ilaria De Vanna, la sua si direbbe una missione più che un mestiere?
«La vocazione è una sfumatura del fare di chiunque creda in ciò che fa, e che a me piace moltissimo, perché è riconoscere il privilegio di fare una cosa che ami, ma anche di costruire qualcosa che puoi lasciare dopo di te. Lavorare così è quello che in Giappone chiamano “ikigai”, il motivo per cui ti alzi la mattina, il senso della vita».
Qual è l’essenza del suo?
«Mettersi nelle condizioni di contribuire a trasformare tutto quello che si può, partendo dal danno ma aggiungendo valore. Sulla carta è un paradigma di giustizia complementare a quello della giustizia processuale: un percorso in cui si mettono insieme vittime, autori di un reato e la comunità, affinché partecipino attivamente (in questo avverbio c’è il senso del tutto) alla ricerca di una soluzione, di una riparazione dei danni procurati. Il senso è quello di allearsi affinché non riaccada, e che ciò che ne è derivato si possa comporre e superare insieme. La giustizia riparativa parte da un fatto (il reato), però contiene una filosofia».
Di “rinascita”?
«Sì, perché è legata all’idea che chi fa questo percorso diventi capace di costruire, costruirsi, dedicarsi, concedersi una occasione di rinascita, per ripartire, riprendendosi il potere e la responsabilità sull’esito di ciò che è successo; da “subire” diventa “agire”, per sé e nell’incontro con l’altro. Che vuol dire dialogare, ascoltare e ascoltarsi: è una dialettica nel senso più profondo».
Quindi anche per chi viene identificato come “colpevole”, che sia di un reato o di uno sgarbo?
«Sono due facce della stessa medaglia. Il punto è che, chiunque tu sia, hai diritto al bello e al buono. Di brutto la vita ti ha già ampiamente sommerso».
In equipe con professionisti e professioniste di diversi settori, dalla psicologia alla pedagogia teatrale, Ilaria si occupa di progetti di riparazione laboratoriali che coinvolgono sia persone adulte (fra i più recenti, “Amleto, la colpa e la riparazione”, e “Una storia” con i signori del programma “Senza sbarre” ad Andria e con i detenuti del carcere di Trani), sia giovani delle scuole del territorio (fra le ultime il Liceo De Santis-Galilei e l’Istituto Tecnico Einaudi di Manduria).
Il lavoro con le giovani generazioni non è propriamente di giustizia riparativa, ma?
«Da lì deriva. Loro sono i veri “Riparatori di futuro”, è in loro che piantiamo i semi di responsabilità più preziosi, lì ci giochiamo tutto. Vuol dire aiutarli a diventare persone adulte, cittadine e cittadini migliori, imparando di più, per esempio, su tematiche ambientali e diritti, a prevenire situazioni potenzialmente a rischio e gestirle, a riconoscere e gestire le emozioni, il dialogo, l’alleanza, l’empatia. Tutto questo ti cambia, cambia il tuo punto di vista e la realtà intorno a te».
Qual è l’obiettivo finale?
«Coinvolgere e rendere partecipe tutta la comunità, affinché si creino sempre più intere città riparatrici di futuro, attraverso interventi qualificati come quelli di CRISI, che ha oltre 30 anni di esperienza».
La cosa più difficile da scardinare?
«Lo sguardo sulla vittima o sull’autore, che è fisso, eterne etichette di “vittima” o “carnefice”; tutto il resto viene meno, si vede solo il danno, ricevuto o procurato che sia. Invece no: quello è solo un pezzo di un immenso, c’è tanto altro che merita di essere visto, che può esprimere tanta bellezza».
Cos’è la bellezza secondo lei?
«Tutti i Comuni (come per esempio Manduria, Monopoli e Alberobello) che si stanno attrezzando attraverso i e le giovani a raccontare questa potenziale bellezza, questo potenziale “altro”, che è fatto di qualità positive. Lo trovo veramente lodevole. Perché il bello, il buono, deve essere disponibile e continuare a circolare».