L’Arcivescovo Satriano, un anno (una vita) da pastore

Oggi l’arcivescovo Giuseppe Satriano “festeggia” il suo primo anno a capo della Diocesi di Bari-Bitonto. Da pastore, come disse fin dal suo primo giorno.

Che realtà ha scoperto in questi 12 mesi?
«Prima di scoprire la realtà intorno a me ho dovuto “scoprire” me stesso dinanzi alle vicende faticose e dolorose del Covid-19 che, a breve distanza dall’ingresso in Diocesi, mi ha colpito duramente costringendomi a circa due mesi di ospedalizzazione. La prima “realtà” che mi è stata data da visitare è stato il mondo della sofferenza fisica e morale, non solo attraverso le mie vicende, ma soprattutto la vita sofferta degli altri, incontrata nelle realtà sanitarie in cui sono stato ospitato. Ho colto il fiume carsico dell’impegno ricco di amore e di vicinanza di tanti medici, infermieri e operatori sanitari che, con generosità, si sono posti, e si pongono, accanto agli ammalati, rischiando e donando con tenerezza e pazienza sé stessi. Bari e la Diocesi intera mi sono apparse con qualche mese di ritardo e le ho colte come un corpo dinamico, coinvolto in un processo di trasformazione, una realtà laboriosa, consapevole del suo ruolo di leadership».
Come è stato accolto?
«Sin dall’inizio ho percepito attesa e benevolenza. Il carattere ospitale dei baresi ha fatto il resto. Non posso dimenticare i numerosissimi messaggi di affetto e vicinanza che mi sono giunti nel tempo della malattia e la cordialità che mi è stata regalata. Sin dall’inizio ho avvertito la volontà di mettersi in cammino, insieme, cercando di trovare strade opportune per fronteggiare i disagi di questo tempo difficile».
Quali sono le criticità del territorio?
«Non è semplice descriverle puntualmente a solo un anno di distanza dal mio ingresso in terra di Bari. Guardavo a questa realtà da lontano e, pur avendo un legame di sangue con la città, non ho mai messo piede a Bari se non per alcuni sporadici appuntamenti ecclesiali. Ho compreso, da subito, il bel cammino vissuto che ha riqualificato tanti ambiti della vita di un territorio che va sempre più assumendo un aspetto metropolitano. Tale ascesa comporta fatiche e il rischio di dimenticare per strada qualcuno. Oggi il periodo pandemico ci pone dinanzi a nuove sfide che intercettano le nostre responsabilità, non solo su un piano organizzativo, ma, direi, soprattutto su un piano educativo. Lavoro e giovani credo siano i temi da mettere in agenda. Molti dei nostri ragazzi emigrano per gli studi, segno di una sfiducia nelle possibilità lavorative di questo territorio, che spesso avvertono segnato da logiche baronali non inclusive».
Che cambiamenti ha introdotto?
Prima di introdurre cambiamenti e avviare progetti, sento la responsabilità di capire, conoscere e assaporare una realtà che mi si presenta ricca di mille volti da incontrare, ascoltare e amare. Dopo 21 anni di ministero di S.E. Monsignor Francesco Cacucci e la ricchezza di percorsi significativi vissuti con arcivescovi del calibro di Nicodemo, Ballestrero e Magrassi, non è semplice, immediato e saggio avviare progetti o cambiamenti senza un oculato discernimento. Da giugno, mese in cui ho ripreso a vivere in mezzo alla gente, ho avviato un ascolto attento delle varie realtà pastorali, dei circa 175 sacerdoti e delle varie realtà ecclesiali e non solo. Questo, se da un lato richiede tempo, dall’altro mi aiuta a leggere in profondità dinamiche e punti di forza di una Chiesa ricca e segnata da figure significative».
Qual è l’episodio che più le è rimasto impresso di questo primo anno?
«Il dramma di Pietro e della sua famiglia. Nelle stesse ore in cui entravo in diocesi un bambino di Bari, Pietro, rimaneva impiccato per un gioco condotto in solitudine nella sua stanza. Un evento luttuoso che ha ferito tutti e che ha messo in evidenza la fatica di questi tempi e la sfida educativa a cui tutti siamo chiamati. Una sfida da vivere con grande impegno, sapendo mettere in campo, da parte di tutte le agenzie educative, cura e accompagnamento. C’è bisogno di nuovi slanci e di nuove strategie per affiancare i più piccoli che, a causa anche di questa pandemia, sono feriti nella loro relazionalità».
Su cosa intende concentrarsi nei prossimi mesi?
«La necessità più urgente è quella di formare una squadra con cui affrontare l’avventura di Chiesa affidatami. La mia persona è piccola cosa ed è importante confidare in un discernimento comunitario. La perdita di fede, che tocca anche i nostri territori, e le fatiche del momento pandemico chiedono un serio ripensamento su alcuni passi da compiere nel campo formativo, nella cura dell’annuncio del Vangelo, nell’attenzione alle nuove povertà. Il nostro popolo vive ancora un legame importante con la realtà della Chiesa, ma i tempi futuri non sono rosei. Stiamo vivendo, anche nella nostra diocesi, il cammino sinodale voluto dal Santo Padre, un’esperienza in cui siamo chiamati, come Chiesa, a metterci in ascolto delle varie realtà per comprendere dove ci troviamo e come stiamo camminando. La sfida, come scrivevo alla diocesi, è far passare il futuro attraverso la strozzatura del presente. Una sfida non semplice ma nella quale dobbiamo cimentarci con coraggio e audacia».
Che rapporto c’è tra la Chiesa e le istituzioni nel Barese?
«Il rapporto è buono e ricco di interlocuzione, nel rispetto delle proprie identità, ai vari livelli. Questo depone bene per un servizio al bene comune, sempre bisognoso di vari punti vista ma anche di profonda e leale collaborazione».
Quale messaggio desidera consegnare a chi ci legge?
«Questo tempo ha bisogno del contributo di ciascuno. Ridare vigore a relazioni autentiche, cariche di rispetto e dignità, credo sia il primo passo da compiere da parte di tutti. Viviamo un cambiamento d’epoca, afferma il Papa, e credo sia così. Il nostro cambiamento sarà possibile solo se sapremo andare all’essenziale, coltivando “spazi umili” di confronto e di ricerca. C’è troppa violenza e arroganza nel modo di comunicare e di cercare il bene, c’è troppo orgoglio nel perseguire obiettivi di valore. Iniziamo a disarmare le parole per cercare l’altro come opportunità di bene e non come nemico. A tutti auguro tempi più sereni ma anche quella sana inquietudine che accende il desiderio di vivere e di vivere con impegno, col cuore».

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